mercoledì 21 maggio 2008

LA TRINITA': SCUOLA DI RELAZIONI BELLE!

di Padre Raniero Cantalamessa
Perché i cristiani credono nella Trinità? Non è già abbastanza difficile credere che c’è Dio, per aggiungerci anche il rebus che egli è “uno e trino”? Ci sono oggigiorno alcuni a cui non dispiacerebbe lasciar da parte la Trinità, anche per poter così dialogare meglio con Ebrei e Musulmani che professano la fede in un Dio rigidamente unico.La risposta è che i cristiani credono che Dio è trino, perché credono che Dio è amore! Se Dio è amore deve amare qualcuno. Non c’è un amore a vuoto, non diretto ad alcuno. Ci domandiamo: chi ama Dio per essere definito amore? Una prima risposta potrebbe essere: ama gli uomini! Ma gli uomini esistono da alcuni milioni di anni, non più. Prima di allora chi amava Dio? Non può infatti aver cominciato ad essere amore a un certo punto del tempo, perché Dio non può cambiare. Seconda risposta: prima di allora amava il cosmo, l’universo. Ma l’universo esiste da alcuni miliardi di anni. Prima di allora, chi amava Dio per potersi definire amore? Non possiamo dire: amava se stesso, perché amare se stessi non è amore, ma egoismo o, come dicono gli psicologi, narcisismo.Ed ecco la risposta della rivelazione cristiana. Dio è amore in se stesso, prima del tempo, perché da sempre ha in se stesso un Figlio, il Verbo, che ama di un amore infinito, che è lo Spirito Santo. In ogni amore ci sono sempre tre realtà o soggetti: uno che ama, uno che è amato e l’amore che li unisce. Là dove Dio è concepito come potenza assoluta, non c’è bisogno di più persone, perché la potenza può essere esercitata benissimo da uno solo; non così se Dio è concepito come amore assoluto.La teologia si è servita del termine natura, o sostanza per indicare in Dio l’unità e del termine persona per indicare la distinzione. Per questo diciamo che il nostro Dio è un Dio unico in tre persone. La dottrina cristiana della Trinità non è un regresso, un compromesso tra monoteismo e politeismo. È al contrario un passo avanti che solo Dio stesso poteva far compiere alla mente umana.La contemplazione della Trinità può avere un impatto prezioso sulla nostra vita umana. Essa è un mistero di relazione. Le persone divine sono definite dalla teologia “relazioni sussistenti”. Questo significa che le divine persone non hanno delle relazioni, ma sono delle relazioni. Noi esseri umani abbiamo delle relazioni – di figlio a padre, di moglie a marito ecc. –, ma non ci esauriamo in quelle relazioni; esistiamo anche fuori e senza di esse. Non così il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo.La felicità e l’infelicità sulla terra dipendono in larga misura, lo sappiamo, dalla qualità delle nostre relazioni. La Trinità ci svela il segreto per avere delle relazioni belle. Ciò che rende bella, libera e gratificante una relazione è l’amore nelle sue diverse espressioni. Qui si vede come è importante che Dio sia visto primariamente come amore e non come potere: l’amore dona, il potere domina. Quello che avvelena una relazione è il volere dominare l’altro, possederlo, strumentalizzarlo, anziché accoglierlo e donarsi.Devo aggiungere una osservazione importante. Il Dio cristiano è uno e trino! Questa è dunque la festa anche dell’unità di Dio, non solo della sua trinità. Anche noi cristiani crediamo “in un solo Dio”, solo che l’unità in cui crediamo non è una unità di numero, ma di natura. Somiglia più all’unità della famiglia che a quella dell’individuo, più all’unità dela cellula che a quella dell’atomo.La prima lettura della festa ci presenta il Dio biblico come “misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia”. Questo è il tratto che più accomuna il Dio della Bibbia, il Dio dell’Islam e il Dio (o meglio la religione) buddista e che più si presta, perciò, a un dialogo e a una collaborazione tra le grandi religioni. Ogni sura del Corano inizia con l’invocazione: “Nel nome di Dio, il Misericordioso, il Compassionevole”. Nel buddismo, che non conosce l’idea di un Dio personale e creatore, il fondamento è antropologico e cosmico: l’uomo deve essere misericordioso per la solidarietà e la responsabilità che lo legano a tutti i viventi. Le guerre sante del passato e il terrorismo religioso di oggi sono un tradimento, non una apologia, della propria fede. Come si può uccidere in nome di un Dio che si continua a proclamare “il Misericordioso e il Compassionavole”? È il compito più urgente del dialogo interreligioso che insieme, i credenti di tutte le religioni, devono perseguire per la pace e il bene dell’umanità.

LA TUA VITA SIA UNA PREGHIERA INCESSANTE

Basilio il Grande, Omelia per la martire Giuditta, 3-4

La preghiera è la domanda di un bene rivolta dai fedeli a Dio. Questa domanda non è limitata, secondo noi, alle parole. Non riteniamo infatti che Dio abbia bisogno di parole per ricordarsi, perché egli sa, anche se non lo preghiamo, ciò di cui abbiamo bisogno. Ma che intendiamo con ciò dire? Che non si deve far consistere la preghiera solo nelle sillabe, ma se ne deve riporre la forza piuttosto nelle scelte dell`anima, e nella pratica delle virtù estesa a tutta la vita. Sia che mangiate, dice l`Apostolo, sia che beviate, sia che facciate qualsiasi cosa, fate tutto a gloria di Dio! (1Cor 10,13). Sedendo a tavola, prega; prendendo il pane ringrazia chi te lo dona; rinfrancando col vino il corpo estenuato, ricorda chi ti porge questo dono per rallegrare il tuo cuore e rinfrancare la tua debolezza. E` finito il pranzo? Non cessi il ricordo del tuo benefattore. Se indossi l`abito, ringrazia chi te lo ha dato; se ti getti sulle spalle il mantello, cresci nell`amore di Dio il quale ci provvede d`estate e d`inverno degli abiti adatti per proteggere la nostra vita e nascondere le nostre vergogne.
E` finito il giorno? Ringrazia colui che ci dona il sole per lo svolgimento delle opere diurne e ci elargisce il fuoco per illuminare la notte e servire agli altri bisogni della vita. La notte poi ti porti altri motivi per pregare. Quando innalzi gli occhi al cielo e fissi la bellezza delle stelle, prega il Padrone di tutte le cose visibili, adora Dio, sublime artefice dell`universo, che ha creato tutto con sapienza. Quando vedi tutti i viventi giacere nel sonno, adora ancora colui che col sonno interrompe, anche nostro malgrado, la serie delle nostre fatiche, e con un breve riposo reintegra il vigore delle nostre forze. La notte, dunque, non sia, per così dire, proprietà piena e assoluta del sonno: non permettere che metà della tua vita sia inutile per l`incoscienza del sonno, ma dividi il tempo della notte tra il riposo e la preghiera; anzi, il sonno stesso sia per te esercizio di pietà. Le fantasie notturne, infatti, sono ordinariamente quasi l`eco delle nostre preoccupazioni diurne: quali sono le nostre occupazioni nella vita, tali sono necessariamente anche i nostri sogni.
In questo modo «pregherai senza interruzione», se non limiterai la tua prece alle sole parole, ma ti unirai a Dio in tutta la condotta della tua vita, sicché il tuo stesso vivere sia una preghiera continua e incessante.



MARIA E IL DONO DELLO SPIRITO SANTO


Insegnamenti di Giovanni Paolo II, XX/1 (1997) p. 1279-1281.
Mercoledì 28 maggio 1997


1. Percorrendo l'itinerario della vita della Vergine Maria, il Concilio Vaticano II ne ricorda la presenza nella comunità che attende la Pentecoste: «Essendo piaciuto a Dio di non manifestare solennemente il mistero della salvezza umana prima di avere effuso lo Spirito promesso da Cristo, vediamo gli Apostoli prima del giorno della Pentecoste "perseveranti d'un sol cuore nella preghiera con le donne e Maria madre di Gesù e i fratelli di Lui" (At 1,14), e anche Maria implorante con le sue preghiere il dono dello Spirito, che l'aveva già adombrata nell'Annunciazione». La prima comunità costituisce il preludio alla nascita della Chiesa; la presenza della Vergine contribuisce a delinearne il volto definitivo, frutto del dono della Pentecoste.


2. Nel clima di attesa, predominante nel Cenacolo dopo l'Ascensione, qual è la posizione di Maria in rapporto alla discesa dello Spirito Santo? Il Concilio sottolinea espressamente la sua presenza orante in vista dell'effusione del Paraclito: Ella implora «con le sue preghiere il dono dello Spirito». Questa notazione risulta particolarmente significativa dal momento che nell'Annunciazione lo Spirito Santo era già sceso su di lei, ricoprendola della «sua ombra» e dando origine all'Incarnazione del Verbo. Avendo già fatto un'esperienza del tutto singolare circa l'efficacia di tale dono, la Vergine Santissima era nella condizione di poterlo apprezzare più di chiunque altro; all'intervento misterioso dello Spirito, infatti, Ella doveva la sua maternità, che faceva di lei la via d'ingresso del Salvatore nel mondo. A differenza di coloro che erano presenti nel Cenacolo in trepida attesa, Ella, pienamente consapevole dell'importanza della promessa di suo Figlio ai discepoli (cf. Gv 14,16), aiutava la comunità a ben disporsi alla venuta del «Paraclito». La sua singolare esperienza, quindi, mentre le faceva desiderare ardentemente la venuta dello Spirito, la impegnava anche a predisporre menti e cuori di coloro che le stavano accanto.


3. Durante quella preghiera nel Cenacolo, in atteggiamento di comunione profonda con gli Apostoli, con alcune donne e con i «fratelli» di Gesù, la Madre del Signore invoca il dono dello Spirito per se stessa e per la Comunità. Era opportuno che la prima effusione dello Spirito su di lei, avvenuta in vista della divina maternità, fosse rinnovata e rafforzata. Infatti, ai piedi della croce, Maria era stata investita di una nuova maternità, quella nei confronti dei discepoli di Gesù. Proprio questa missione esigeva un rinnovato dono dello Spirito. La Vergine lo desiderava, quindi, in vista della fecondità della sua maternità spirituale. Mentre nell'ora dell'Incarnazione lo Spirito Santo era sceso su di lei, come persona chiamata a partecipare degnamente al grande mistero, ora tutto si compie in funzione della Chiesa, della quale Maria è chiamata ad essere tipo, modello e madre. Nella Chiesa e per la Chiesa Ella, memore della promessa di Gesù, attende la Pentecoste ed implora per tutti una molteplicità di doni, secondo la personalità e la missione di ciascuno.


4. Nella comunità cristiana la preghiera di Maria riveste un peculiare significato: favorisce l'avvento dello Spirito, sollecitandone l'azione nel cuore dei discepoli e nel mondo. Come nell'Incarnazione lo Spirito aveva formato nel suo grembo verginale il corpo fisico di Cristo, così ora nel Cenacolo lo stesso Spirito scende ad animarne il Corpo Mistico. La Pentecoste, quindi, è frutto anche dell'incessante preghiera della Vergine, che il Paraclito accoglie con favore singolare, perché espressione del materno amore di lei verso i discepoli del Signore. Contemplando la potente intercessione di Maria che attende lo Spirito Santo, i cristiani di tutti i tempi, nel lungo e faticoso cammino verso la salvezza, ricorrono spesso alla sua intercessione per ricevere con maggior abbondanza i doni del Paraclito.


5. Rispondendo alla preghiera della Vergine e della comunità raccolta nel Cenacolo il giorno di Pentecoste, lo Spirito Santo ricolma la Vergine ed i presenti della pienezza dei suoi doni, operando in loro una profonda trasformazione in vista della diffusione della Buona Novella. Alla Madre di Cristo e ai discepoli sono concessi nuova forza e nuovo dinamismo apostolico per la crescita della Chiesa. In particolare, l'effusione dello Spirito conduce Maria ad esercitare la sua maternità spirituale in modo singolare, attraverso la sua presenza intessuta di carità e la sua testimonianza di fede. Nella Chiesa nascente Ella consegna ai discepoli, quale inestimabile tesoro, i suoi ricordi sull'Incarnazione, sull'infanzia, sulla vita nascosta e sulla missione del divin Figlio, contribuendo a farlo conoscere e a rafforzare la fede dei credenti. Non possediamo alcuna informazione sull'attività di Maria nella Chiesa primitiva, ma è lecito supporre che, anche dopo la Pentecoste, Ella abbia continuato a vivere un'esistenza nascosta e discreta, vigile ed efficace. Illuminata e condotta dallo Spirito, ha esercitato un influsso profondo sulla comunità dei discepoli del Signore.

IL MIO BENE E' STARMENE PRESSO DIO

Agostino, La città di Dio, 10,25

Il mio bene è starmene presso Dio (Sal 72,28).
In questo salmo è chiaramente esposta la distinzione fra i due Testamenti, quello Vecchio, cioè, e quello Nuovo. Il salmista dice che, a causa delle promesse carnali e terrene, vedendo che abbondantemente si adempiono per gli empi, per poco non diede un mal passo, per poco i suoi piedi non smucciarono, pensando quasi di aver servito inutilmente Dio, vedendo che chi lo disprezza prospera nella felicità che egli da Dio sperava. Soggiunge di essere stato oppresso da questo problema, volendo rendersi conto perché le cose stiano così, fino a quando non entrò nel santuario di Dio e comprese la fine di quelli che pur sembrano felici a chi erra. Allora comprese che proprio nel momento in cui si innalzarono, furono abbattuti, vennero meno e perirono per le loro iniquità; e che tutto il cumulo della loro felicità terrena fu come un sogno per chi si sveglia e si trova privo delle gioie fallaci che sognava. Poiché essi ritenevano di essere grandi su questa terra, cioè in questa città terrena, il salmista soggiunse: Signore, tu ridurrai a nulla la loro immagine nella tua città (Sal 72,20). Che poi a lui giovasse aspettarsi anche gli stessi beni terreni dall`unico vero Dio, in cui potere tutto sta, lo mostra chiaramente dicendo: Sono rimasto davanti a te come un animale, ma sarò sempre con te (Sal 72,23). Disse «come un animale», cioè un essere privo di intelligenza. Intende dire: «Avrei dovuto desiderare da te quei beni che gli empi non possono avere in comune con me; non quei beni di cui li ho visti ricchi, tanto da ritenere di averti servito invano: li avevano infatti coloro che ti avevano rifiutato il loro servizio. Tuttavia, sarò sempre con te, perché anche per il desiderio di tali beni non ho ricercato altri dèi».
Poi seguono le parole: Mi hai tenuto per la destra, col tuo consiglio mi hai guidato e mi hai accolto in gloria (Sal 72,24); proprio come se appartenessero alla sinistra i beni di cui vide ricchi gli empi, tanto da venirne quasi meno. Che cosa c`è per me nel cielo, soggiunge, e che ho voluto da te sulla terra? (Sal 72,25). Rimprovera se stesso, dispiace a se stesso, e giustamente, perché possedendo un bene tanto grande nel cielo (come comprese poi), desiderò da Dio una felicità transitoria, fragile e per così dire infangata, qui sulla terra. «Venne meno il mio cuore e la mia carne, o Dio del mio cuore». E` un venire meno buono, da ciò che è inferiore a ciò che è superiore; precisamente come si dice in un altro salmo: Desidera e viene meno la mia anima negli atri del Signore (Sal 83,3), e in un altro ancora: L`anima mia viene meno nella tua salvezza (Sal 118,81). Tuttavia, avendo asserito che vennero meno sia il cuore che la carne, non soggiunse: Dio del mio cuore e della mia carne, ma: Dio del mio cuore. E` il cuore infatti che purifica la carne. Per questo il Signore dice: Mondate ciò che è dentro, e ciò che è fuori sarà mondo (Mt 23,26). E poi dice che Dio stesso è la sua eredità; non qualcosa ricevuta da Dio, ma proprio lui: Dio del mio cuore e mia eredità, o Dio, per tutti i secoli (Sal 72,26): fra tutte le cose che gli uomini eleggono, a lui piacque eleggere Dio. Ma tutti coloro che si allontanano da te, periranno: hai distrutto chiunque ti è stato infedele (Sal 72,27): cioè chi si abbandona all`amore per molti dèi. E finalmente segue il versetto, in vista del quale sembra che sia stato premesso tutto ciò che il salmo recita: Ma per me, il mio bene è starmene presso Dio: non andarmene lontano, non abbandonarmi a liberi amori. Ma la vicinanza a Dio sarà perfetta quando sarà libero tutto ciò che deve esserlo. Frattanto però vale ciò che segue: Porre in Dio la mia speranza (Sal 72,28). Ma dice l`Apostolo: Vedere già ciò che si spera, non è speranza: ciò infatti che si vede, come ancora sperarlo? Ma se speriamo ciò che non vediamo, noi l`aspettiamo con paziente attesa (Rm 8,24-25). Ma noi, viventi ancora in questa speranza, adempiamo ciò che segue nel salmo, e saremo, a nostro modo, angeli di Dio, cioè suoi messaggeri: annunciando cioè la sua volontà e lodando la sua gloria e la sua grazia.




IL SUONO DELLA SUA VOCE

di David Wilkerson 4 Marzo 2002



Gesù visse la propria vita sulla terra dipendendo totalmente dal Padre celeste. Il nostro Salvatore non fece o disse nulla fin quando non si fosse consultato con il Padre Suo in gloria. E non compì alcun miracolo se non quelli che il padre Lo istruì a fare. Dichiarò: “… ma dico queste cose come il Padre mi ha insegnato. E colui che mi ha mandato è con me; egli non mi ha lasciato solo, perché faccio sempre le cose che gli piacciono” (Giovanni 8:28-29).
Cristo rese molto chiaro che Egli era guidato ogni giorno da Suo Padre. Il Suo esercizio nella totale dipendenza, ascoltando sempre la voce di Suo Padre, era parte del Suo cammino giornaliero. Possiamo vedere ciò in una parte del Vangelo di Giovanni. In un giorno di sabato Gesù camminava nei pressi della piscina di Bhetesda, quando vide un uomo paralizzato che giaceva su un lettuccio. Cristo si volse all’uomo e gli comandò di togliere il suo letto e camminare, immediatamente fece tutto ciò che gli era stato detto e se ne andò via guarito.
I capi dei Giudei erano adirati a questo motivo. Nelle loro menti Gesù aveva profanato il sabato per guarire quell’uomo. Ma Cristo rispose: “Io ho fatto quello che il Padre mi ha detto di fare”. E spiegò: “Il Padre mio opera fino ad ora, e anch'io opero»….In verità, in verità vi dico che il Figlio non può da sé stesso far cosa alcuna, se non la vede fare dal Padre; perché le cose che il Padre fa, anche il Figlio le fa ugualmente. Perché il Padre ama il Figlio, e gli mostra tutto quello che egli fa; e gli mostrerà opere maggiori di queste, affinché ne restiate meravigliati.” (Giovanni 5:17-20).
Gesù affermò molto chiaramente: “Mio Padre mi ha istruito su quello che io dovevo fare”. Ti puoi domandare: ma quando esattamente Dio il Padre mostrò a Cristo quello che doveva fare? Quando Gesù ha visto Dio compiere miracoli? Quando il Padre Gli ha parlato a proposito delle cose che doveva dire e fare?
Tutto questo è accaduto nella gloria, prima che Cristo venisse sulla terra in carne? Si sono forse tutti e due seduti insieme per pianificare ogni giorno della vita di Gesù? Forse il Padre a detto al Figlio: “Nel secondo sabato del sesto mese dei giudei camminerai presso la piscina di Bhetesda. Incontrerai un paralitico. Comanda a quell’uomo di alzarsi e camminare”.
Se questo è accaduto nessuno di noi può affermarlo. Ma anche se questo fosse successo non avrebbe avuto rilevanza per il nostro cammino attuale con il Signore. Però sappiamo che Gesù è venuto per mostrarci il sentiero che dobbiamo seguire. Dopo tutto Egli è venuto sulla terra per provare tutto ciò che noi affrontiamo, provava i nostri sentimenti, era toccato dalle nostre infermità e dolori. Quindi noi possiamo vivere come Egli visse, camminare come Egli fece.
Gesù mentre era in carne doveva quotidianamente confidare su quanto gli diceva il Padre. Doveva essere dipendente dal Padre in ogni momento, affinché potesse ascoltare la Sua voce che lo guidava. Altrimenti Cristo non avrebbe potuto fare tutto ciò che ha fatto. Gesù doveva ascoltare la voce di Suo Padre ora dopo ora, miracolo dopo miracolo, un giorno per volta.
Come faceva Gesù ad ascoltare la ferma e quieta voce del Padre? La Bibbia ci mostra che ciò accadeva durante la preghiera. Ogni volta Gesù andava in un posto solitario per pregare. Aveva imparato ad udire la voce del Padre mentre era in ginocchio ed il Padre era così fedele da mostrarGli tutto ciò che doveva fare e dire.
Immaginate Gesù mentre prende delle grandi decisioni, come scegliere i Suoi discepoli. Come fece il Signore a scegliere i dodici in mezzo alla vasta moltitudine che lo seguiva? Fu una decisione di un momento. Dopo di ciò questi discepoli avrebbero costituito i pilastri della chiesa del Nuovo Testamento. Ma il Padre aveva forse dato a Lui i nomi mentre era ancora nella gloria? Se lo avesse fatto, perché Gesù trascorse una notte intera in preghiera prima di nominare i dodici?
Luca ci dice: “In quei giorni egli andò sul monte a pregare, e passò la notte pregando Dio”. (Luca 6:12) la mattina seguente Gesù nominò i dodici. Come li aveva conosciuti? Il padre glieli aveva rivelati la notte precedente.
In più il Padre, nella stessa notte, Gli aveva dato le beatitudini, quelle che furono predicate nel Sermone sul Monte: “Beati i misericordiosi, perché a loro misericordia sarà fatta…” (vedi Matteo 5:7 e seguenti). Gesù aveva ricevuto il tutto direttamente dal cuore del padre.
Gesù trascorreva ogni giorno del tempo con il Padre
Era in queste ore che trascorreva da solo insieme al Padre che Cristo udiva la Sua voce. In verità Gesù riceveva ogni parola d’incoraggiamento, tutte le profezie, mentre era in preghiera. Egli domandava al Padre, Lo adorava e si sottometteva alla Sua volontà e dopo ogni miracolo, ogni insegnamento dato, ogni confronto con i Farisei, Gesù non vedeva l’ora di essere in comunione con il Padre.
Possiamo notare questa devozione in Matteo 14. Gesù aveva appena ricevuto la notizia della morte di Giovanni Battista: “Udito ciò, Gesù si ritirò di là in barca verso un luogo deserto, in disparte …” (Matteo 14:13). (Non mi meraviglierei se si fosse diretto nello stesso deserto dove Giovanni aveva trascorso anni in meditazione e preparazione del proprio ministero).
Gesù si trovava lì da solo, pregando e addolorandosi profondamente per la morte di Giovanni. Questi era stato un amico molto amato, oltre ad essere un rispettato profeta di Dio. Ma ora mentre si trovava in comunione con il Signore, Cristo chiese e ricevette grazia e lì in quel deserto, mentre era a stretto contatto con il Padre, Gesù ricevette direzione per il giorno seguente.
Immediatamente dopo aver lasciato quel luogo, Cristo cominciò ad operare miracoli: “Gesù, smontato dalla barca, vide una gran folla; ne ebbe compassione e ne guarì gli ammalati.” (Matteo 14:14). Quello stesso giorno Gesù sfamò una folla di cinquemila persone con solo cinque pani e due pesci. Provate ad immaginare che giornata indaffarata, piena e pesante deve essere stata per Lui. Più tardi in quel giorno licenziò la folla.
Ed allora cosa fece a quel punto? Potreste pensare che abbia cercato di riposare o di mangiare in tranquillità. Forse avrebbe riunito alcuni dei suoi più fedeli discepoli per riassumere gli eventi della giornata. Oppure, forse, avrebbe desiderato andare a Betania per essere rinfrancato dall’ospitalità della famiglia di Marta e Maria.
Gesù non fece nessuna di queste cose. Le Scritture raccontano: “Dopo aver congedato la folla, si ritirò in disparte sul monte a pregare. E venuta la sera, se ne stava lassù tutto solo.” (Matteo 14:23). Ancora una volta Gesù era corso dal Padre, sapeva che il solo posto per recuperare forza era alla presenza di Suo Padre.
Gesù era totalmente cosciente del lavoro che era venuto a compiere sulla terra. Era ben delineato nelle Scritture: doveva guarire gli ammalati e gli afflitti, aprire gli occhi ai ciechi, confortare coloro con il cuore rotto, aprire le porte delle prigioni, mettere in libertà i prigionieri, soddisfare gli affamati e gli assetati della moltitudine. Eppure Gesù, durante il Suo cammino terreno, non fece alcuna di queste cose senza che l’avesse prima sottoposte al Padre. Anche se tutte queste opere erano state programmate prima della Sua venuta, Egli ha sempre cercato la guida di Suo Padre in ogni momento.
Le Scritture ci dicono che in un’occasione Gesù guarì “coloro che Lo toccavano”. In altre occasioni invece non poté guarire a causa dell’incredulità del popolo. Come faceva Gesù a sapere quando poteva guarire e quando no? Egli udiva la ferma, soave voce di Suo Padre, che gli dava una parola di guida. Ed Egli si compiaceva nell’ascoltare la voce del Padre.
Lo stesso è vero per la nostra chiamata. Conosciamo tutto ciò che le Scritture richiedono da noi: dobbiamo amarci gli uni gli altri, pregare incessantemente, andare in tutto il mondo per predicare, studiarci di mostrarci approvati, camminare secondo giustizia, assistere i poveri, gli ammalati, i bisognosi ed i prigionieri. Sappiamo anche che dobbiamo fare altre cose che non sono menzionate nelle Scritture. Noi affrontiamo alcuni bisogni durante il nostro cammino di ogni giorno, anche attraverso delle crisi o altre situazioni urgenti. In alcuni momenti abbiamo bisogno che sia la voce del Padre a guidarci, parlandoci di cose che non sono delineate nei Suoi comandamenti. Più semplicemente, abbiamo bisogno di ascoltare la stessa voce del Padre che Gesù udiva mentre era sulla terra.
Conosciamo che Cristo ebbe questo tipo di scambi con il Padre. Egli disse ai discepoli: “… perché vi ho fatto conoscere tutte le cose che ho udite dal Padre mio.” (Giovanni 15:15). E disse anche ai capi religiosi: “…vi ho detto la verità che ho udita da Dio; Abraamo non fece così.” (Giovanni 8:40). Cosa voleva dire Gesù con quest’ultima frase? Stava dicendo ai dottori d’Israele: “Vi ho dato la verità direttamente dal cuore di Dio. Abraamo non ha potuto farlo”.
Cristo stava dicendo: “Voi vivete una teologia morta. State studiando il passato, onorando il vostro padre Abraamo imparando le regole ed i regolamenti per la vostra vita. Ma quello che vi sto dicendo non proviene da una storia remota. Io sono appena stato insieme al Padre. Egli mi ha dato ciò che vi sto predicando. Egli mi ha mostrato quello che avete bisogno di udire”.
Giovanni il battista testimoniò contro questi stessi capi religiosi: “Egli rende testimonianza di quello che ha visto e udito, ma nessuno riceve la sua testimonianza.” (Giovanni 3:32). Oggi Gesù sta predicando lo stesso messaggio: “Potete essere soddisfatti ascoltando sermoni presi da qualche buon libro. Ma la Parola che Io voglio darvi è fresca”.
Lasciatemi condividere con voi dove mi trovo nella mia vita e nel ministero
Sto chiedendo al Signore se sia possibile oggi, in questo tempo della grazia, vivere come Egli fece. Potremmo essere totalmente dipendenti dalla voce del Padre in gloria? È possibile ascoltare la Sua guida per le nostre vite giorno dopo giorno, momento dopo momento? C’è un cammino davanti a noi per il quale possiamo dire: “Io parlo solo quando ascolto dal Signore e faccio solo quello che vedo fare a Lui”?
Conosco la gioia che deriva dall’essere a stretto contatto con Cristo. Proviene dall’ adorarLo, servirLo, aspettando che ci riveli il Suo amore. Io chiamo questo tempo “il tempo del nutrimento da Gesù”. Siedo alla Sua presenza, ascoltando al Sua ferma e soave voce, ed Egli mi parla, mi istruisce tramite il Suo Spirito Santo, mostrandomi cose che non potrei mai imparare da un libro o da una persona. La Sua verità crea vita nel mio spirito ed il mio cuore esulta in me.
Certamente non sono ancora arrivato. Questo tipo di esperienze occasionali non sono ancora diventate un modo di vivere per me. Quindi sto chiedendo al Signore: “È possibile vivere una vita totalmente dipendente da Te? Oppure è soltanto un pio desiderio? Sto sognando qualcosa che è impossibile da realizzare?”
È mia convinzione che molti di noi vivono al disotto dei privilegi che abbiamo come figli di Dio. Per esempio leggo che Elia stava di fronte al Signore ed udiva la Sua voce. Leggo di Geremia che stava alla presenza di Dio, ascoltando i Suoi consigli. Egli grida: “… infatti chi ha assistito al consiglio del SIGNORE, chi ha visto, chi ha udito la sua parola? Chi ha prestato orecchio alla sua parola e l'ha udita?” (Geremia 23:18). Ascolto un grido simile provenire da Isaia: “Quando andrete a destra o quando andrete a sinistra, le tue orecchie udranno dietro a te una voce che dirà: «Questa è la via; camminate per essa!»” (Isaia 30:21).
Perché il Signore non parla alla nostra generazione, quando c’è così tanta paura ed incertezza? Il mondo è nel trambusto, cercando una risposta. Perché il Signore è così silenzioso ora, proprio quando abbiamo bisogno di udire la Sua voce ora più che mai? Tragicamente molti ministri di oggi predicano sermoni senza vita. I loro messaggi non convincono di peccato e neanche rispondono al profondo grido del nostro cuore. Ciò è assolutamente criminale. Le vuote filosofie che spuntano fuori in un tempo di grande fame spirituale, causano grandi angosce negli ascoltatori.
Giovanni il battista insegnò: “Colui che ha la sposa è lo sposo; ma l'amico dello sposo, che è presente e l'ascolta, si rallegra vivamente alla voce dello sposo; questa gioia, che è la mia, è ora completa.” (Giovanni 3:29). Il significato letterale tratto dal greco è: “L’amico dello sposo che dimora e rimane con lui”. Giovanni il battista stava dicendo ai suoi discepoli: “Ho udito la voce dello sposo e questa è divenuta la mia più grande gioia. Il suono di essa riempie la mia anima. Come sono riuscito a sentire la sua voce? Stando vicino a lui, ascoltandolo mentre il suo cuore parlava”.
Mi domanderete: come fece Giovanni ad imparare ad udire la voce di Gesù? Per quanto ne sappiamo noi, loro due si incontrarono faccia a faccia solo durante il battesimo di Cristo. Ed anche allora ebbero solo un breve scambio, consistente in poche parole.
Giovanni imparò ad udire la voce del Signore proprio come fece Gesù: da solo nel deserto. Quest’uomo si isolò nel deserto fin da una giovane età. Non si concesse nessun piacere di questo mondo, incluso cibo saporito, un soffice letto, vestiti confortevoli. Non ebbe alcun insegnante, nessun mentore, neanche libri. Durante questi anni trascorsi da solo, Giovanni ebbe comunione con il Signore. Ed in tutto questo tempo egli fu insegnato dallo spirito ad udire la ferma e soave voce di Dio. Ma Cristo parlò a Giovanni prima ancora di venire sulla terra in carne.
Se ci diamo a questa comunione quotidiana, il Signore sarà fedele nel dirigere le nostre vite fino a darci dettagliate istruzioni
Giovanni imparò tutto quello che sapeva stando continuamente in comunione con il Signore. Questo è il motivo per cui ricevette il messaggio di pentimento, riconoscendo la venuta dell’Agnello, accorgendosi che lui doveva diminuire mentre il Messia doveva crescere. Giovanni imparò tutte queste cose dal Signore. E la voce di Dio era la sua gioia.
Possiamo vedere che le Scritture sottolineano questo tipo di vita. Non sto parlando solo della vita isolata di un profeta. Per primo abbiamo l’esempio di Gesù. La Sua vita era molto impegnata, spesso ogni sua ora era occupata. Ma il cuore di Cristo era tutto il giorno impegnato nella ricerca del Padre. Egli dava a Dio del tempo di qualità, sedendo ai Suoi piedi, servendoLo, ascoltando la Sua voce. Ed era istruito e diretto dal Padre ogni giorno.
Mi chiederete: “Ma cosa dobbiamo fare noi? Gesù era letteralmente il figlio di Dio, generato dal Padre. Nessuno potrà mai essere all’altezza del Suo esempio”.
Considerate Cornelio, il centurione. Quest’uomo non era un predicatore oppure un diacono. Infatti, essendo un Gentile, non era considerato neanche nel novero del popolo di Dio. Eppure le Scritture dicono che questo soldato: “…era pio e timorato di Dio con tutta la sua famiglia, faceva molte elemosine al popolo e pregava Dio assiduamente.” (Atti 10:2).
Era un uomo molto affaccendato. Cornelio aveva 100 soldati sotto il suo comando. Eppure egli pregava in ogni momento libero; ed un giorno, mentre era in preghiera, il Signore gli parlò. Un angelo gli apparve, chiamando Cornelio per nome; il centurione la riconobbe come voce di Dio e rispose: “… Che c'è, Signore?...” (Atti 10:4).
Il Signore parlò direttamente a Cornelio, dicendogli di cercare l’apostolo Pietro. Gli dette delle informazioni dettagliate, incluso il nome, l’indirizzo e persino le parole da dire. Nel frattempo Pietro stava pregando sul un terrazzo, quando “…una voce gli disse….” (Atti 10:13). Ancora una volta lo Spirito Santo stava dando delle istruzioni dettagliate: “…Ecco tre uomini che ti cercano.
Alzati dunque, scendi, e va' con loro, senza fartene scrupolo, perché li ho mandati io.” (Atti 10:19-20).
Pietro seguì gli uomini alla casa di Cornelio motivato da un appuntamento divino. Quello che accadde in quel luogo, scosse l’intera chiesa giudaica-pentecostale. Il Signore aveva aperto il vangelo verso i Gentili. La cosa più dura da accettare per un credente giudaico era che Dio avesse parlato ad un comune, incolto Gentile. Non riuscivano a capacitarsi come Cornelio avesse potuto udire la voce di Dio così chiara e potente. Era una sfida per tutti loro.
Anche Paolo ricevette una rivelazione da Gesù direttamente dal cielo. Egli testimoniò che le cose che gli erano state mostrate intorno a Cristo non potevano essere insegnata a qualunque uomo. Certamente aveva sentito la voce di Gesù stesso mentre era in ginocchio, in preghiera. “Vi dichiaro, fratelli, che il vangelo da me annunziato non è opera d'uomo; perché io stesso non l'ho ricevuto né l'ho imparato da un uomo, ma l'ho ricevuto per rivelazione di Gesù Cristo”. (Galati 1:11-12).
“Ma Dio … si compiacque di rivelare in me il Figlio suo perché io lo annunziassi fra gli stranieri. Allora io non mi consigliai con nessun uomo” (Galati 1:15-16).
Al tempo di Paolo c’erano degli ottimi insegnanti, persone che erano forti nella Parola di Dio, come Apollo e Gamaliele. E c’erano anche gli apostoli che avevano camminato e parlato con Gesù. Ma Paolo sapeva che una rivelazione di Cristo di “seconda mano” non era abbastanza buona per lui. Doveva possedere una sempre crescente rivelazione di Gesù dal Signore stesso.
Per certo Paolo non era contro questi insegnanti; dopotutto lui ne faceva parte. Egli insegnava: “È lui (Dio) che ha dato alcuni come apostoli, altri come profeti, altri come evangelisti, altri come pastori e dottori” (Efesini 4:11). Ma Paolo era cosciente di stare per affrontare un mondo di Gentili pagani. Ed aveva la necessità di una personale rivelazione di Gesù, che lo sostenesse. Infatti Paolo diceva che ogni credente aveva bisogno di ricevere insegnamento dal Signore: “Se pure gli avete dato ascolto e in lui siete stati istruiti secondo la verità che è in Gesù” (Efesini 4:21).
Perché al giorno d’oggi viene predicatacosì poco la rivelazione di Gesù Cristo?
In questi tempi ci sono schiere di ministri ben preparati, uomini molto rispettati per i loro insegnamenti molto avanzati. Hanno trascorso anni in seminari, studiando teologia, filosofia ed etica. E costoro hanno avuto insegnanti di grande talento, uomini stimati molto esperti nel loro campo.
Ma quando molti di questi ministri ben preparati si mettono dietro al pulpito per predicare, emettono solo vuote parole. Possono raccontarvi molte cose interessanti a proposito della vita e del ministerio di Cristo, ma quanto dicono lasciano freddo il vostro spirito. Perché? Perché non hanno la rivelazione di Gesù, nessuna personale esperienza con Lui. Tutto ciò che conoscono di Cristo è stato filtrato attraverso la mente di altri uomini, il loro discernimento è semplicemente preso in prestito dai loro studi.
Paolo aveva chiesto agli Efesini: “Come avete imparato Cristo?”; in altre parole: chi vi ha insegnato quello che conoscete di Gesù? È qualcosa che deriva dai sermoni che avete ascoltato, oppure dagli insegnamenti della scuola domenicale? Se è così, ciò è buono. Ma è questa la misura di quanto conoscete Cristo? Non importa quanto potentemente il vostro pastore possa predicare, oppure quanto siano unti i vostri insegnanti; voi avete bisogno molto di più di una mera conoscenza mentale di Gesù.
Molti cristiani si ritengono soddisfatti di quello che chiamo una iniziale, primaria rivelazione della grazia e del potere salvifico di Cristo, questa è l’unica rivelazione di Gesù che hanno. Ed essi testimoniano: “Gesù è il Messia il Salvatore; è il Signore, il Figlio di Dio”. Ogni vero credente fa l’esperienza di questa meravigliosa rivelazione che cambia la vita; eppure essa è solo il primo passo. Quello che c’è in seguito è una rivelazione di Cristo che è più gloriosa, più profonda e che dura per tutta la vita.
Paolo lo sapeva. Aveva ricevuta una incredibile rivelazione di Gesù lungo la strada che portava a Damasco; fu letteralmente buttato giù da cavallo ed una voce gli parlò dal cielo. Nessuna persona aveva mai avuto una rivelazione così personale di Cristo come questa. Ma Paolo era cosciente che questo era solo l’inizio. Da quel momento in poi dice: “… mi proposi di non sapere altro fra voi, fuorché Gesù Cristo e lui crocifisso.” (1Corinzi 2:2).
Matteo ci fornisce un chiaro esempio di questa primaria rivelazione di Cristo; Gesù aveva appena dato un duro insegnamento alle moltitudini e molte persone se ne erano andate; quindi Gesù riunì i Suoi discepoli e chiese loro: “…«E voi, chi dite che io sia?» Simon Pietro rispose: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente».” (Matteo 16:15-16).
Gesù replicò: “… Tu sei beato, Simone, figlio di Giona, perché non la carne e il sangue ti hanno rivelato questo, ma il Padre mio che è nei cieli.” (Matteo 16:17”. Cristo stava affermando: “Pietro, tu non hai ricevuto questa rivelazione soltanto perché hai camminato vicino a Me. Mio Padre te lo ha rivelato dal cielo”. In breve, Pietro aveva ricevuto la gloriosa iniziale rivelazione che ogni credente riceve. La gloria della salvezza di Cristo era stata rivelata in lui.
Ma continuiamo a leggere: “Allora ordinò ai suoi discepoli di non dire a nessuno che egli era il Cristo.” (Matteo 16:20). Perché Gesù disse ciò? Non era stato proprio il cielo ad annunciare che Egli era l’Agnello di Dio che doveva venire per salvare il mondo?
Il problema era che i discepoli non erano pronti a testimoniare di Lui come il Messia. La rivelazione che avevano di Lui non era completa. Non sapevano nulla della croce, della sofferenza, della profondità del sacrificio del loro Maestro. Certo, avevano già guarito degli ammalati, scacciato demoni e testimoniato a molti. Ma anche se erano stati con Gesù per questi anni, non avevano ancora una profonda, personale rivelazione di chi Lui fosse.
Il verso successivo conferma questo: “Da allora Gesù cominciò a spiegare ai suoi discepoli …” (Matteo 16:21). In altre parole Cristo stava cominciando a rivelareSi, mostrando loro cose più profonde su Se stesso. Il rimanente del verso continua: “…che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molte cose da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti, degli scribi, ed essere ucciso, e risuscitare il terzo giorno. ” (16:21).
Stai cercando di conoscere la voce di Gesù?
Hai ricevuto degli insegnamenti da Gesù, mentre ti sei trovato nella cameretta della preghiera? Lo hai cercato per avere qualcosa che non puoi acquisire tramite libri o insegnanti? Ti sei seduto in tranquillità davanti alla Sua presenza, aspettando di udire la Sua voce? La Bibbia dice che tutta la verità è in Cristo, e soltanto lui può rivelartela attraverso il Suo benedetto Spirito Santo.
Una domanda può ora sorgere nelle vostre menti: “Non è pericoloso aprire la mia mente ad una sottile, soave voce? Non è per questo motivo che molti cristiani si trovano in difficoltà? Il nemico è venuto imitando la voce di Dio dicendo loro di fare o credere in qualcosa di ridicolo. E sono stati ingannati. Non è la Bibbia l’unica voce a cui dobbiamo credere? Non è lo Spirito Santo il nostro unico insegnante?
Di seguito vi illustrerò quanto credo su questo argomento:
1. Come il Padre ed il Figlio, lo Spirito Santo è una persona distinta, vivente, potente, intelligente,divina in se stessa. Non è una persona fatta di carne, ma di spirito, una personalità di per se stessa, che guida la chiesa. Arreca un ordine divino, conforta gli afflitti, rinforza i deboli e ci mostra le ricchezze di Cristo.
2. Le Scritture descrivono lo Spirito Santo come lo Spirito del Figlio: “… Dio ha mandato lo Spirito del Figlio suo nei nostri cuori…” (Galati 4:6). È anche conosciuto come lo spirito di Cristo: “Essi cercavano di sapere l'epoca e le circostanze cui faceva riferimento lo Spirito di Cristo che era in loro…” (1Pietro 1:11), “… Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, egli non appartiene a lui.” (Romani 8:9). Quindi è chiaro che lo Spirito di Dio e lo Spirito di Cristo sono la stessa cosa. Cristo è Dio e lo stesso Spirito viene da entrambi. Lo Spirito Santo è l’essenza sia del Padre che del Figlio ed è stato mandato da entrambi.
3. C’è un modo per essere protetti dall’inganno durante una profonda ricerca in preghiera. La nostra protezione è nell’attesa. La voce della carne ha sempre fretta, vuole gratificazioni istantanee, per cui non ha pazienza. È sempre incentrata su se stessa piuttosto che nel Signore e cerca sempre di farci fuggire dalla presenza di Dio.
In effetti la voce del nemico può essere paziente, ma solo fino ad un certo punto. Può essere tenera, dolce, rassicurante e logica. Ma se vogliamo essere certi che non è la voce di Dio, possiamo provarla semplicemente attendendo, senza voler subito ubbidire a tale voce e la vedremo diventare impaziente, rivelandosi subito per ciò che è. Repentinamente diventa sgradevole, pretende, ci vilipendia e ci condanna. Per cui noi conosciamo per certo che non è la voce di Dio.
Questo è il motivo per cui la Bibbia ci ripete continuamente: “Attendi il Signore … aspettaLo… attendi”. È durante la nostra attesa che queste altre voci vengono scoperte, oppure si stancano e ci lasciano. Dobbiamo attendere, attendere, attendere, in modo che sia il cielo che l’inferno conosca che non ci lasciamo andare fino a che il Signore non ci guidi.
Vediamo una dimostrazioni di questo in Geremia 42. un rimanente del popolo di Dio venne da Geremia cercando una parola di guida dal Signore, per cui il profeta andò in preghiera. Quindi: “Dopo dieci giorni, la parola del SIGNORE fu rivolta a Geremia.” (Geremia 42:7). Nel decimo giorno, finalmente Dio parlò a Geremia. Il profeta dovette attendere pazientemente fino a che non avesse riconosciuto che stava ascoltando la voce di Dio.
Ma siamo ancora protetti in un altro modo: confrontiamo tutto ciò che udiamo con la Bibbia. Non accetteremo nulla che non sia conforme alla Parola di Dio.
Quindi, cari santi, questo percorso è possibile e deve diventare la nostra unica ossessione!

LA PREGHIERA CONTINUA



di Leonardo Pinnelli

L’esperienza spirituale del monachesimo antico sottolineava in maniera forte la necessità del raggiungimento della hesychia, o preghiera pura, senza la quale non può esservi vera orazione. Gli antichi monaci hanno cercato di raggiungere l’obiettivo di questa preghiera pura, cioè la stabilità del proprio cuore di fronte a Dio. Essi cercarono non un “atto” continuo di preghiera, quanto piuttosto una disposizione costante, stabile a pregare. Padre Špidlík in un suo articolo riporta un esempio simpatico che aiuta a comprendere in cosa si esplichi questa “stabilità”: un musicista non deve pensare come e se suonare, ma , essendo egli stesso musicista, istintivamente sa suonare. Questo vale per ogni situazione: una mamma è una mamma anche se non deve ricordarselo, educa i figli e basta, questa è la sua disposizione continua: essere mamma. Questo discorso vale anche per la preghiera
Afferma padre Špidlík:
Dunque, avere la disposizione del cuore alla preghiera è molto più che pregare in momenti differenti. Significa essere disposti a pregare, quando è possibile. Gli autori spirituali dell’Oriente chiamavano ciò la “perfezione della preghiera”.
Un monaco rumeno, testimone vivente della tradizione esicasta, padre Teofil Paraian, è sulla stessa linea del padre Špidlík:
La preghiera incessante del cuore la possiamo raggiungere tramite la grazia di Dio nella misura dei nostri sforzi. Lo sforzo porta alla disposizione permanente e questa, a sua volta, rende possibile la preghiera continua. In realtà la preghiera incessante non va intesa come una semplice ripetizione continua di una formula di preghiera, ma piuttosto come uno stato di preghiera: la coscienza permanente della presenza di Dio, coscienza dalla quale scaturisce necessariamente la glorificazione di Dio.
A partire da quanto appena affermato possiamo sottolineare alcuni aspetti:
  1. Si può raggiungere l’incessante preghiera del cuore tramite la grazia di Dio nella misura dei nostri sforzi;
  2. Tale sforzo porta alla disposizione permanente;
  3. Avere la disposizione del cuore alla preghiera è molto più che pregare in momenti differenti;
  4. Questa disposizione permanente rende possibile la preghiera continua e ciò significa essere disposti a pregare quando è possibile.
Ciò che appare importante è che per raggiungere la preghiera del cuore bisogna affrontare uno sforzo personale, una fatica del cuore, che però sia aperto alla grazia del Signore. Questa fatica è l’atteggiamento fondamentale del monaco che consiste nella continua lotta fra il mettere in pratica i comandi del Signore e il pentimento per il proprio peccato. Tale atteggiamento può efficacemente riassumersi nel sostantivo greco praxis. «Il termine praxis […] comprende tutto ciò che definiamo “pratiche” della vita cristiana, sia negative (purificazione dal peccato e dalle sue conseguenze), sia positive (l’esercizio delle virtù)».
Nella letteratura spirituale antica sovente viene sottolineata questa dimensione della vita ascetica: essa rappresenta un aspetto necessario che purifica il cuore del monaco e lo apre alla pratica della preghiera pura (contemplazione o theoria).
È dunque la praxis che eleva il monaco alla theoria, cioè ogni fatica, globalmente intesa, fisica, spirituale, morale, introduce l’uomo nel «regno dei cieli». Padre Špidlík propone alcune chiarificazioni di questo assioma generale della vita spirituale:
· La purificazione deve precedere l’illuminazione;
· Le virtù introducono alla conoscenza;
· La vita in Cristo conduce all’illuminazione;
· Dal visibile si giunge alla conoscenza dell’invisibile;
· L’uomo interno entra in relazione con Dio;
· La teologia del tempo e dell’eternità;
· L’unione diviene ascesi mistica;
Indipendentemente dall’interpretazione che si vuole preferire, rimane vero che l’opera del monaco è indirizzata al recupero della propria salute spirituale e all’acquisizione dell’unione con Dio, al raggiungimento di un cuore e di una mente puri e quindi della contemplazione.
Affinché l’uomo raggiunga la contemplazione e viva la preghiera pura, è necessario che la sua mente sia sgombra di ogni sorta di immagini e concetti e pensieri cattivi o di carattere spirituale, è indispensabile che essa sia pura. « La prima condizione della contemplazione è […] la purificazione dal peccato, la penitenza, perché lo Sposo non ama unirsi ad un’anima che gli è estranea».
Tutti gli autori sono concordi sulla necessità di estirpare ogni impurità dal cuore; non c’è invece concordanza su in che cosa consista concretamente questa purificazione: se sia purificazione della carne, dei sensi, dei pensieri cattivi, del peccato.
Afferma Evagrio Pontico che la preghiera non potrà essere pura se l’orante si lascia coinvolgere da faccende materiali e turbare da continue preoccupazioni. Preghiera, infatti, vuol dire rimozione dei pensieri.
Nella spiritualità monastica, generalmente il termine pensiero ha un’accezione del tutto negativa: è lo strumento attraverso il quale il nemico può entrare nel cuore dell’uomo e così indurlo al peccato. Non può pregare in maniera tranquilla colui che non ha acquisito l’arte di combattere i propri nemici spirituali.
Gli autori antichi insegnano la differenza tra «pensiero semplice» e «pensiero appassionato».
La mente umana, fatta ad immagine di quella divina, può pensare qualsiasi cosa; generalmente però quanto viene pensato è raro che risulti essere «puro», in quanto al pensiero si aggiunge la tendenza a desiderare qualcosa contro i comandi di Dio, ciò che i greci chiamano prospatheia. L’uomo spirituale dovrà distinguere il pensiero dalla sua passione. Doroteo di Gaza chiama questo pensiero passionale «volontà propria».
La tradizione monastica ha cercato di praticare questa purificazione della parte passionale dell’anima attraverso la fatica del corpo, l’ascesi , la custodia del cuore e l’attuazione dei comandi divini come l’ abba Agatone ricorda in un apoftegma:
Domandarono una volta ad Agatone: “Cosa vale di più, la fatica del corpo o la custodia del cuore?”. L’anziano rispose: “L’uomo è come un albero: la fatica del corpo sono le foglie, la custodia del cuore il frutto. Ora, poiché com’è scritto, Ogni albero che non produce frutto sarà tagliato e gettato nel fuoco, è chiaro che tutto il nostro impegno deve tendere al frutto, cioè a custodire il nostro spirito. Ma è necessaria anche la protezione e l’ornamento delle foglie, cioè la fatica del corpo”.
Anche Teofane il Recluso, il linea con la tradizione, evidenzia l’importanza della fatica del corpo e del cuore:
Quello che cerchiamo in tutti i nostri sforzi e combattimenti ascetici è la purificazione del cuore e il ristabilimento dello spirito. Ci sono due modi di arrivarci: la via attiva, cioè la pratica di una disciplina ascetica, e la via contemplativa, che consiste nel rivolgere la mente a Dio.
Quando il peccato è reiterato allora nel cuore dell’uomo si produce un habitus che gli autori antichi chiamavano passione. Questi pensieri o, peggio, queste passioni vanno estirpate dal cuore; i primi sono più facilmente, affrontabili le seconde necessitano di un lavoro più duro, di pentimento e ascesi, come ci ricorda Doroteo di Gaza:
Fate attenzione, fratelli, a come sono le cose e guardate di non trascurare voi stessi, perché anche una piccola trascuratezza ci porta a grandi pericoli […] Si sottovalutano sempre i piccoli squilibri e non si sa che se il corpo si ammala anche un po’, specialmente se l’individuo è un po’ debole, c’è bisogno di molta fatica e tempo prima che si ristabilisca.
A sostegno di ciò, egli racconta una storia che rappresenta bene la fatica di estirpare le passioni:
Un grande Anziano stava in ricreazione con i suoi discepoli in un posto dove c’erano diversi cipressi, piccoli e grandi. L’Anziano disse a uno dei discepoli: “ Strappa questo cipresseto”. Era piccolissimo e il fratello lo strappò subito con una sola mano. Poi l’Anziano gliene mostrò un altro più grande del primo e disse: “Strappa anche questo”. Quello lo scosse con tutte e due le mani e lo strappò. Di nuovo l’Anziano gliene indicò uno più grande ancora: e lui riuscì a strappare anche quello, ma con maggior fatica. Gliene mostrò un altro ancora più grande, e dopo averlo molto scosso e aver faticato molto e sudato, sollevò anche quello. Poi l’Anziano gliene indicò uno ancora più grande e lui fatico e sudò parecchio, ma non riuscì a smuoverlo. Come l’Anziano vide che non ce la faceva, ordinò ad un altro fratello di alzarsi e di aiutarlo, e così riuscirono, tra tutti e due, a strapparlo. Allora l’Anziano disse ai fratelli: “ Ecco, fratello, così sono le passioni: fin quando sono piccole, se vogliamo, riusciamo tranquillamente a reciderle. Ma se le lasciamo stare perché sono piccole, s’induriscono, e quanto più s’induriscono, di tanto maggior fatica hanno bisogno. Se poi continuano a ingrossarsi contro di noi, nemmeno con fatica riusciamo più a tagliarle da noi stessi, se non otteniamo aiuto da qualche santo che, dopo Dio, si prenda cura di noi.
Un aspetto che caratterizza fortemente la praxis negativa è certamente la penitenza e il penthos (compunzione). La penitenza ha come elemento essenziale la capacità di riconoscere il proprio peccato di fronte a Dio, di biasimare le proprie colpe e condannare se stessi. Spesso ricorre nella letteratura monastica l’imperativo «Bada a te stesso!», o espressioni come «Fa lutto su di te» oppure «Medico, cura te stesso!», o anche «Condannare se stessi».
A titolo di esempio presentiamo alcuni passi tratti dagli Insegnamenti Spirituali di Doroteo di Gaza il quale dedica un “capitolo” intero al tema del «Biasimo di sé» che fa da contrappunto ad un tema complementare, «Non si deve giudicare il prossimo»:
A volte si disprezza colui che vuole affliggerci e non lo si considera per nulla [...]. Voglio raccontarvi un episodio che vi farà meravigliare. Nel cenobio, prima che io venissi via di là, c’era un fratello che io non vedevo mai turbato o afflitto con nessuno; eppure vedevo che molti fratelli lo maltrattavano e lo strapazzavano in vario modo [...]. Un giorno lo presi da parte [...] e lo invitai a dirmi quale pensiero aveva sempre nel suo cuore, sia che venisse maltrattato, sia che ricevesse qualsiasi sgarbo, visto che dimostrava una tale pazienza. Egli mi rispose [...] e mi disse: «Io non ho che da stare attento a queste ingiurie e accettarle da loro come i cani giovani le accettano dagli uomini». [...] L’origine di ogni turbamento, se cerchiamo con precisione, è nel fatto che non rimproveriamo noi stessi: per questo [...] non troviamo mai riposo. Non ci si deve meravigliare, infatti, se sentiamo dire dai santi che tranne questa non c’è altra strada [...]. Quale gioia, quale riposo non ha dovunque vada, come ha detto l’abba Poimen, colui che rimprovera sé stesso. Gli può accadere di ricevere danno, offesa, qualsiasi afflizione: ma già da prima se ne considera meritevole e non si turba mai.
Anche quando apparentemente sembra che non ci sia alcunché di cui rimproverarsi, Doroteo di Gaza invita i monaci ad esaminarsi scrupolosamente per trovare qualche motivo, seppur remoto, per accusarsi:
Ma si dirà: «E se il fratello mi affligge e io faccio l’esame di coscienza e trovo che non gli ho offerto alcun pretesto, come posso rimproverare me stesso? ». Veramente, se uno si esamina con timor di Dio, trova che certamente ha dato motivo o con le azioni o con le parole o con il comportamento. E se pure vede, come dice, che in nessuna di queste cose ha dato assolutamente motivo per il presente, é probabile che un’altra volta lo abbia afflitto o per la stessa cosa o per un’altra.
Il turbamento che spesso è frutto della presunzione di sé e dell’orgoglio ferito a volte può essere utilizzato a vantaggio della vita spirituale, infatti la tentazione esterna che porta al turbamento può avere il valore positivo di rivelare una passione latente di cui non si ha coscienza e può rappresentare una notevole occasione di purificazione:
Talvolta poi uno si vede ben piazzato nella pace e nella tranquillità ma quando un fratello gli dice una parola che lo rattrista, si turba e per questo crede di avere ragione ad affliggersi e dice contro di lui: «Se non veniva a parlarmi e a turbarmi, non avrei peccato». Anche questo è un’impertinenza, anche questo è un ragionamento storto. È forse colui che gli ha detto quella parola che ha messo in lui la passione? La passione era già in lui, e quello non ha fatto altro che portargliela alla luce perché, se vuole, possa pentirsene. Egli infatti è simile ad un pane di fior di farina, bello fuori ma dentro muffo: quando uno lo spezza, allora si vede il suo marciume. Così anche lui se ne stava in pace, come credeva, ma dentro aveva la passione e non lo sapeva.
Condannare, o biasimare continuamente se stessi, permette al cuore di accogliere il pentimento, la compunzione, il penthos:
Se tu condanni incessantemente te stesso, il tuo cuore sarà compunto per accogliere il pentimento.
La compunzione (πένθος) va oltre la penitenza. Essa è l’atteggiamento fondamentale del monaco; è afflizione, tristezza che deriva dall’aver offeso o contristato qualcuno che si ama, è dispiacere per la salvezza perduta. Spesso il penthos è lutto per il proprio passato peccaminoso che genera le lacrime. «Ci sono molti tipi di lacrime, ed è essenziale operare una distinzione. La differenza cruciale si pone fra le lacrime carnali e le lacrime spirituali ( c’è una terza possibilità: le lacrime possono essere demoniache). Le lacrime carnali sono emotive, quelle spirituali sono ascetiche. Le prime sono generalmente legate alle passioni: sono spesso frutto della collera, della frustrazione, dell’invidia, dell’autocommiserazione, o semplicemente dell’eccitazione nervosa. Le seconde, come suggerisce il loro nome, sono un dono della grazia divina dello Spirito santo, non semplice risultato dei nostri sforzi, e sono strettamente legate alla preghiera. Secondo i padri, le lacrime sono principalmente di due ordini. Sul piano più basso sono amare; a un livello più elevato, dolci. Su un piano inferiore sono una forma di purificazione; al livello più elevato, di illuminazione» .
La compunzione vera che provoca le lacrime irradia nel cuore del penitente una gioia particolare, una dolcezza che verifica l’autenticità della compunzione stessa; essa è dono di Dio. Dice infatti San Giovanni Climaco:
A riflettere sulla natura della vera compunzione, non so come essa, dentro il lutto e l’afflizione di cui parliamo, nasconda una gioia e una felicità paragonabile al miele dentro il favo. Che conclusione ne trarremo? Che siffatta compunzione è veramente un dono del Signore. Poiché non è possibile dolcezza spirituale senza amarezza, quando Dio nel segreto consola i contriti di cuore

MARIA ALLE NOZZE DI CANA DI GALILEA


Insegnamenti di Giovanni Paolo II, XX/1 (1997) p. 383-385


1. Nel narrare la presenza di Maria nella vita pubblica di Gesù, il Concilio Vaticano II ne ricorda la partecipazione a Cana in occasione del primo miracolo: «Alle nozze in Cana di Galilea, mossa a compassione, indusse con la sua intercessione Gesù Messia a dare inizio ai miracoli (cf. Gv 2,1-11)». Sulla scia dell'evangelista Giovanni, il Concilio fa notare il ruolo discreto e, al tempo stesso efficace della Madre, che con la sua parola induce il Figlio al «primo segno». Ella, pur esercitando un influsso discreto e materno, con la sua presenza risulta, alla fine, determinante. L'iniziativa della Vergine appare ancora più sorprendente, se si considera la condizione d'inferiorità della donna nella società giudaica. A Cana, infatti, Gesù non solo riconosce la dignità ed il ruolo del genio femminile, ma, accogliendo l'intervento di sua Madre, le offre la possibilità di essere partecipe all'opera messianica. Non contrasta con questa intenzione di Gesù l'appellativo «Donna», col quale Egli si rivolge a Maria (cf. Gv 2,4). Esso, infatti, non contiene in sé alcuna connotazione negativa e sarà nuovamente usato da Gesù nei confronti della Madre ai piedi della Croce (cf. Gv 19,26). Secondo alcuni interpreti, questo titolo «Donna» presenta Maria come la nuova Eva, madre nella fede di tutti i credenti. [384] Il Concilio, nel testo citato, usa l'espressione: «mossa a compassione», lasciando intendere che Maria era ispirata dal suo cuore misericordioso. Avendo intravisto l'eventualità del disappunto degli sposi e degli invitati per la mancanza di vino, la Vergine compassionevole suggerisce a Gesù di intervenire col suo potere messianico. A taluni la domanda di Maria appare sproporzionata, perché subordina ad un atto di pietà l'inizio dei miracoli del Messia. Alla difficoltà ha risposto Gesù stesso che, con il suo assenso alla sollecitazione materna, mostra la sovrabbondanza con cui il Signore risponde alle umane attese, manifestando anche quanto possa l'amore di una madre.

2. L'espressione «dare inizio ai miracoli», che il Concilio ha ripreso dal testo di Giovanni, attira la nostra attenzione. Il termine greco arché, tradotto con inizio, principio, è usato da Giovanni nel Prologo del suo Vangelo: «In principio era il Verbo» (Gv 1,1). Questa significativa coincidenza induce a stabilire un parallelo tra la prima origine della gloria di Cristo nell'eternità e la prima manifestazione della stessa gloria nella sua missione terrena. Sottolineando l'iniziativa di Maria nel primo miracolo e ricordando poi la sua presenza sul Calvario, ai piedi della Croce, l'evangelista aiuta a comprendere come la cooperazione di Maria si estenda a tutta l'opera di Cristo. La richiesta della Vergine si colloca all'interno del disegno divino di salvezza. Nel primo segno operato da Gesù i Padri della Chiesa hanno intravisto una forte dimensione simbolica, cogliendo, nella trasformazione dell'acqua in vino, l'annunzio del passaggio dall'antica alla nuova Alleanza. A Cana, proprio l'acqua delle giare, destinata alla purificazione dei Giudei e all'adempimento delle prescrizioni legali (cf. Mc 7,1-15), diventa il vino nuovo del banchetto nuziale, simbolo dell'unione definitiva fra Dio e l'umanità.

3. Il contesto di un banchetto di nozze, scelto da Gesù per il suo primo miracolo, rimanda al simbolismo matrimoniale, frequente nel[385]l'Antico Testamento per indicare l'Alleanza tra Dio e il suo popolo (cf. Os 2,21; Ger 2,1-8; Sal 44; ecc.) e nel Nuovo Testamento per significare l'unione di Cristo con la Chiesa (cf. Gv 3,28-30; Ef 5,25-32; Ap 21,1-2; ecc.). La presenza di Gesù a Cana manifesta inoltre il progetto salvifico di Dio riguardo al matrimonio. In tale prospettiva, la carenza di vino può essere interpretata come allusiva alla mancanza d'amore, che purtroppo non raramente minaccia l'unione sponsale. Maria chiede a Gesù d'intervenire in favore di tutti gli sposi, che solo un amore fondato in Dio può liberare dai pericoli dell'infedeltà, dell'incomprensione e delle divisioni. La grazia del Sacramento offre agli sposi questa forza superiore d'amore, che può corroborare l'impegno della fedeltà anche nelle circostanze difficili. Secondo l'interpretazione degli autori cristiani, il miracolo di Cana racchiude, inoltre, un profondo significato eucaristico. Compiendolo in prossimità della solennità della Pasqua giudaica (cf. Gv 2,13), Gesù manifesta, come nella moltiplicazione dei pani (cf. Gv 6,4), l'intenzione di preparare il vero banchetto pasquale, l'Eucaristia. Tale desiderio, alle nozze di Cana, sembra sottolineato ulteriormente dalla presenza del vino, che allude al sangue della Nuova Alleanza, e dal contesto di un banchetto. In tal modo Maria, dopo essere stata all'origine della presenza di Gesù alla festa, ottiene il miracolo del vino nuovo, che prefigura l'Eucaristia, segno supremo della presenza del suo Figlio risorto tra i discepoli.

4. Alla fine del racconto del primo miracolo di Gesù, reso possibile dalla fede salda della Madre del Signore nel suo divin Figlio, l'evangelista Giovanni conclude: «I suoi discepoli credettero in Lui» (Gv 2,11). A Cana Maria inizia il cammino della fede della Chiesa, precedendo i discepoli ed orientando a Cristo l'attenzione dei servi. La sua perseverante intercessione incoraggia, altresì, coloro che vengono talora a trovarsi dinanzi all'esperienza del «silenzio di Dio». Essi sono invitati a sperare oltre ogni speranza, confidando sempre nella bontà del Signore.

PREGARE CONFIDANDO IN DIO

Erma, Il Pastore, Precetto IX

Il Pastore mi disse: «Allontana da te ogni dubbio e non esitare, neppure un istante, a chiedere qualche grazia al Signore, dicendo fra te e te: Come è possibile che io possa chiedere e ottenere dal Signore, che ho tanto peccato contro di lui? Non pensare a ciò, ma rivolgiti a lui di tutto cuore e pregalo senza titubare; sperimenterai la sua grande misericordia. Dio non è come gli uomini che serbano rancore; egli dimentica le offese e ha compassione per la sua creatura. Tu dunque purifica prima il tuo cuore da tutte le vanità di questo mondo e da tutti i peccati che abbiamo menzionati, poi prega il Signore e tutto otterrai. Sarai esaudito in ogni tua preghiera, se chiederai senza titubare. Se invece esiterai in cuor tuo, non potrai conseguire nulla di ciò che chiedi. Chi, pregando Dio, dubita, è uno di quegli indecisi che nulla assolutamente ottengono; invece chi è perfetto nella fede, chiede tutto confidando nel Signore e tutto riceve, perché prega senza dubbio o titubanza. Ogni uomo indeciso e tiepido, se non farà penitenza, difficilmente avrà la vita.
«Purifica il tuo cuore da ogni traccia di dubbio, rivestiti di fede robusta, abbi la certezza che otterrai da Dio tutto ciò che domandi. Se poi avviene che, chiesta al Signore qualche grazia, egli tarda a esaudirti, non lasciarti prendere dallo scoraggiamento per il fatto di non aver ottenuto subito ciò che domandasti: certamente questo ritardo nell`ottenere la grazia chiesta o è una prova o è dovuto a qualche tuo fallo che ignori. Perciò non cessare di rivolgere a Dio la tua intima richiesta, e sarai esaudito; se invece ti scoraggi e cominci a diffidare, incolpa te stesso, e non colui che è disposto a concederti tutto.
«Guardati dal dubbio! E` sciocco e nocivo e sradica molti dalla fede, anche se sono assai convinti e forti. Tale dubbio è fratello del demonio e produce tanto male tra i servi di Dio. Disprezzalo dunque e dominalo in tutto il tuo agire, corazzandoti con una fede santa e robusta, perché la fede tutto promette e tutto compie; il dubbio invece, poiché diffida di sé, fallisce in tutte le opere che intraprende. Vedi, dunque, che la fede viene dall`alto, dal Signore, e ha una grande potenza, mentre il dubbio è uno spirito terreno che viene dal diavolo, e non ha vera energia. Tu dunque servi alla fede, che ha vera efficacia, e tienti lontano dal dubbio che ne è privo. E così vivrai in Dio; e tutti coloro che ragionano così, vivranno in Dio».