lunedì 14 aprile 2008

IL VERO PASTORE


di Pd Raniero Cantalamessa


Giovanni 10, 1-10

Nel Vangelo del Buon Pastore si è sempre parlato della figura Principale di Gesù, ma per una volta non è su di lui che vogliamo concentrare l'attenzione quanto piuttosto sul suo antagonista. Chi è il personaggio definito "ladro" ed "estraneo"? Gesù pensa, in primo luogo, ai falsi profeti e agli pseudo-messia del suo tempo che si spacciavano per inviati da Dio e liberatori del popolo, mentre in realtà non facevano altro che mandare la gente a morire per loro. Oggi questi "estranei" che non entrano per la porta, ma si introducono nell'ovile di soppiatto, che "rubano" le pecore e le "uccidono" sono visionari fanatici, o approfittatori astuti, che speculano sulla buona fede e la ingenuità della gente. Mi riferisco a fondatori o capi di sette religiose che pullulano nel mondo. Quando parliamo di sette, dobbiamo però stare attenti a non mettere tutto sullo stesso piano. Gli Evangelici e i Pentecostali protestanti, per esempio, a parte gruppi isolati, non sono sette. La Chiesa cattolica da anni mantiene con essi un dialogo ecumenico a livello ufficiale, ciò che non farebbe mai con le sette. Le vere sette si riconoscono da alcune caratteristiche. Anzitutto quanto al contenuto del loro credo, essi non condividono punti essenziali della fede cristiana, come la divinità di Cristo e la Trinità; oppure mescolano a dottrine cristiane elementi estranei incompatibili con esse, come la reincarnazione. Quanto ai metodi, sono, alla lettera "ladri di pecore", nel senso che tentano con tutti i mezzi di strappare i fedeli alla loro Chiesa di origine, per farne degli adepti della loro setta. Sono di solito anche aggressivi e polemici. Più che proporre dei contenuti propri, passano il tempo ad accusare, polemizzare, contro la Chiesa, la Madonna e in genere tutto ciò che è cattolico. Siamo, con ciò, agli antipodi del Vangelo di Gesù che è amore, dolcezza, rispetto per la libertà altrui. L'amore evangelico è il grande assente dalle sette. Gesù ci ha dato un criterio sicuro di riconoscimento: "Guardatevi, ha detto, dai falsi profeti che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro sono lupi rapaci. Dai loro frutti li riconoscerete" (Mt 7,16). E i frutti più comuni del passaggio delle sette sono famiglie spaccate, fanatismo, attese apocalittiche della fine della mondo, regolarmente smentite dai fatti. C'è un altro tipo di sette religiose, nate fuori del mondo cristiano, in genere importate dall'oriente. A differenza delle prime, esse non sono aggressive, si presentano anzi "in vesti di agnello", predicando l'amore per tutti, per la natura, la ricerca dell'io profondo. Sono formazioni spesso sincretistiche, cioè che mettono insieme elementi di varie provenienze religiose, come è il caso di New Age. L'immenso danno spirituale di chi si lascia convincere da questi nuovi messia, è che perde Gesù Cristo e con lui quella "vita in abbondanza" che egli è venuto a portare. Alcune di queste sette sono pericolose anche sul piano della sanità mentale e dell'ordine pubblico. Le vicende ricorrenti di plagio e di suicidi collettivi ci avvertono fin dove può portare il fanatismo di qualche capo settario.Quando si parla delle sette dobbiamo però recitare anche un «mea culpa». Spesso le persone finiscono in qualche setta per il bisogno di sentire il calore e il supporto umano di una comunità, che non hanno trovato nella loro parrocchia.

LA MUSICA & IL CANTO




Cos'è la musica

La musica è un linguaggio che Dio ha scelto ed incoraggia, per comunicare con il cuore dell’uomo; vedi i Salmi 33:1, 92:1, 147:1 e, soprattutto, il Salmo 22:3, dove dice che Dio dimora nelle lodi del Suo popolo. Per chi avesse dubbi che la parola "lode" non implichi la musica, si fa notare che la parola tehillal usata nel 33, 147 e 22, vuol dire "salmo, o canto di lode", e quella usata nel 92, zamar, e il verbo "dare lode, o cantare lodi"
Un linguaggio che parla a tutte e tre le sfere umane: corpo, anima e spirito. Guarda caso, anche la musica viene suddivisa spesso in ritmo, melodia ed armonia;
Un linguaggio di carattere profetico, perché ha la capacità, come la profezia (I Co.14:3), di "edificare, esortare e consolare" ; non a caso Asaf, Jeduthun ed Heman erano profeti, chiamati anche i "veggenti del re", ed erano i tre responsabili designati da Davide per tutto ciò che riguardava la lode nel tempio (1 Cr. 15:16 e segg.); edificare, perché nella musica c’è un ruolo di insegnamento, che ad esempio seppe usare molto bene Lutero, nei primi anni della Riforma, o che vediamo nei testi dei Gospel, che erano vere e proprie predicazioni cantate per un popolo che non sapeva leggere; esortare, quando nel testo c’è un chiaro riferimento ad andare avanti nelle battaglie spirituali e nelle prove; consolare, quando un canto sa curare le ferite del cuore usando la Parola di Dio (quindi non stiamo parlando solo di musica, ma di musica connessa strettamente ad un testo: la musica "usa la parola" come Dio "usa la Parola" per creare e per salvare); un buon gruppo di lode porta la congregazione da qualche parte, cioè ubbidisce a "ciò che lo Spirito dice alla Chiesa" (Ap. 3:6).
Essa è anche un linguaggio di carattere divino, perché la musica era già con Dio quando Lui creava l’universo (Giobbe 38:7), nel tempo e fuori del tempo (vedi per esempio alla nascita di Gesù nel tempo, Luca 2:13, e fuori del tempo quando l’Agnello siede sul trono, Apoc. 5:8-9).


Il curioso ruolo di Lucifero
Quando Dio crea Lucifero (questa l’interpretazione data da molti studiosi che si basano sui testi di Isaia 14:9-15 ed Ezechiele 28:11-19), mette al suo servizio "flauti e tamburi"; ripeto, al suo servizio, quindi Dio dà a Lucifero il ruolo di "responsabile della lode e dell’adorazione". Cosa succede allora quando Lucifero cade, trascinandosi dietro un terzo degli angeli? Che il posto del responsabile della lode rimane vacante: possiamo immaginare che in cielo, per un tempo, vi sia stato silenzio... e qui si inserisce la Chiesa, cioè noi. La Chiesa prende il posto di Lucifero, ed in questo diviene un pubblico spettacolo di fronte a principati e podestà, ed agli angeli perplessi, che "vorrebbero guardare dentro a questa situazione" che non riescono a capire (1 Pi. 1:12). Dalla polvere, Dio si trae un popolo che Lo loda, Egli che "chiama le cose che non sono" e le fa essere! (Salmo 102:18-22 e Isaia 43:21). E questa creazione fatta dal fango della terra fa "mangiare la polvere" a Satana (Ge. 3:14, Is. 65:25). Capite ora il ruolo della musica? Dio vuole che ci sia musica nel Suo popolo. E’ un linguaggio che Dio ha scelto, e che Lui vuole che noi usiamo.


La consapevolezza del nostro ruolo
Una delle più grandi macchinazioni di Satana è stata il cercare di togliere la gioia dal popolo di Dio. Lo fa con Davide, quando danzò davanti all’arca del patto, lo fa nelle persecuzioni e nelle deportazioni, dove la tristezza prende il posto della gioia (Salmo 137). Lo fa ancora adesso, quando cerca di convincerci a rimanere ancorati a "vecchi modelli" per tanti motivi:
Tradizione: "si sono sempre cantati questi cantici, perché abbandonarli?" (Cantate all’Eterno un cantico nuovo - Salmo 98:1...)
Immobilismo: "Dio non guarda alla bravura, ma al cuore; che bisogno c’è di impegnarsi troppo? Mica saremo presuntuosi?" (Suonate maestrevolmente con giubilo - Salmo 33:3)
Paura di scandalizzare: "non c’è bisogno di fare tutto questo strepito... il Signore non è mica sordo!" (dimenticandoci che la parola hallal , da cui viene "alleluia", vuol dire "fare rumore festoso", e che in I°Cronache 15:16 Davide ordina ai Leviti musicisti di "suonare in modo vigoroso"; vedi anche Salmo 95:1, 100 e 118:15)
Ma allora, qual è l’atteggiamento giusto per cantare a Dio? Tenetevi, perchè questa è forte!!!



COME DEI CONDANNATI A MORTE...
...RESI LIBERI PER GRAZIA...
...E PROCLAMATI SACERDOTI E RE!



Fate vostra questa realtà, e come canterete ora all’Eterno? con la faccia mogia mogia? Se eravamo condannati a morte e siamo stati liberati, già questo sarebbe sufficiente per cantare con gioia e strepitare, ma... siamo stati fatti sacerdoti e re! Chi vi può fermare ora? Come canterete da oggi in poi? Ecco la consapevolezza del nostro ruolo nella musica; quando acquistiamo questa, tutto il nostro atteggiamento verso il canto cambia, ed anche i risultati della nostra adorazione: quando impariamo a lodare ed adorare, noi vediamo "il volto di Dio"!!! (Salmo 89:15 "Beato il popolo che conosce il grido di giubilo; esso cammina, o Eterno, alla luce del Tuo volto; festeggia del continuo nel Tuo nome, ed è esaltato dalla Tua giustizia...").

NEL SILENZIO, ASCOLTO DI DIO


di Maria, Elisa, Enrico Marotta

Le parole di San Bruno «Quanta utilità e gioia divina rechino la solitudine e il silenzio dell'eremo a coloro che li amano, lo sanno solamente quelli che ne hanno fatto esperienza. Qui, infatti, agli uomini forti è consentito raccogliersi quanto desiderano e restare con se stessi, coltivare assiduamente i germogli delle virtù e nutrirsi, felicemente, dei frutti del paradiso. Qui si conquista quell'occhio il cui sereno sguardo ferisce d'amore lo Sposo, e per mezzo della cui trasparenza e purezza si vede Dio. Qui si pratica un ozio laborioso e si riposa in un'azione quieta. Qui, per la fatica del combattimento, Dio dona ai suoi atleti la ricompensa desiderata, cioè la pace che il mondo ignora, e la gioia nello Spirito Santo. Che cosa è tanto giusto e tanto utile, e che cosa così insito e conveniente alla natura umana quanto l'amare il bene? E che cosa altro è tanto bene quanto Dio? Anzi, che cosa altro è bene se non solo Dio? Perciò l'anima santa, che, di questo bene, in parte percepisce l'incomparabile dignità, splendore e bellezza, accesa dalla fiamma d'amore dice: L'anima mia ha sete del Dio forte e vivo; quando verrò e mi presenterò davanti al volto di Dio?».


Così si esprimeva Bruno, il primo certosino. Parole folgoranti che, per tutti coloro di cui è il padre, tratteggiano e illuminano il cammino della contemplazione; ma anche parole disincantate, visto che non fanno che aprire l'orizzonte su un mistero insondabile e ineffabile. Ciò che è chiesto è di procedere sempre più lontano, sempre più in alto, sempre più in profondità. Il Cristo Gesù Cristo è «la via, la verità e la vita». Nessuno va al Padre senza passare attraverso di Lui, poiché «non vi è altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati». Di fatto la Parola che ha spiegato i cieli si è come nascosta nella carne di un popolo, fino a farsi essa stessa carne, per abitare in mezzo a noi. «Ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita, questo vi annunziamo!». Il Figlio nella sua carne ci rivela il Padre e fa di noi dei figli. «Hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te». Più noi siamo uniti a Cristo per mezzo della forza dei sacramenti e della fedeltà nella preghiera, e più, per Lui, con Lui ed in Lui, penetriamo nell'intimità del Padre.




Ascolto nel silenzio


Per disporsi ad un tale incontro niente è più importante di rimanere nell'ascolto. Divenire silenzio nell'ascolto del silenzio, al fine di percepire nel cuore di esso la voce dell'amato. «Dio conduce il suo servo nella solitudine per parlargli al cuore, ma solamente colui che ascolta nel silenzio percepisce il mormorio del vento leggero che manifesta il Signore. Abbia dunque familiare quel tranquillo ascolto del cuore che lascia entrare Dio da tutte le porte e da tutte le vie. Così, purificato dalla pazienza, consolato e nutrito dall'assidua meditazione delle Scritture, e introdotto dalla grazia dello Spirito nelle profondità del suo cuore, il monaco diverrà capace non solo di servire Dio, ma di aderire a lui». Mistero di ascolto, mistero di fede, mistero dello Spirito. Lui che condusse Gesù nel deserto e lo fece esultare di gioia, Lui per il quale l'amore di Dio è stato versato nei nostri cuori, e viene in soccorso della nostra debolezza perché non sappiamo come pregare, e ci insegna a dire: «Abbà! Padre!». Purificato, vivificato, fortificato per mezzo dell'amore di Cristo, rianimato, sospinto dal soffio dello Spirito, abbracciato nel desiderio dal Padre.... il monaco solitario entra in comunione con il Dio tre volte santo, partecipa allo scambio ineffabile di conoscenza e di amore che è la vita delle persone divine nella Trinità. Tutta la sua esistenza non diventa altro che stupore davanti alla bellezza infinita, immutabile e trascendente di Dio nell'immensità del suo amore.
Semplicità Desiderare, contemplare, accostare il Dio tre volte santo, eterno ed insondabile, richiede una perseveranza a tutta prova, che non dispensa assolutamente dall'invocare il Signore della tenerezza e della misericordia. Di fatto per vivere negli anni un'esistenza fondata sulla sola contemplazione è necessario che questa vita sia improntata ad una grande semplicità. Lontano da ogni genere di complessità, di molteplicità e di dispersione, il solitario si attiene con forza all' «unico necessario». Egli ordina con equilibrio ed armonia tutte le cose all'unione con Dio, applicandosi serenamente al compito di ogni momento. L'alternanza di vita solitaria in cella e di vita comunitaria, di preghiera personale e liturgica, di studio e di lavoro manuale, come anche la differenza tra la sobrietà quotidiana e la letizia dei giorni di festa, lungi dall'essere fonte di dispersione, fanno della vita certosina un insieme sapientemente costruito, dove ogni elemento riceve piena forza e valore solo se visto nella totalità. Con un cuore semplice e uno spirito purificato, il monaco si sforza di fissare in Dio i suoi pensieri e le sue emozioni, al fine di divenire una dimora tranquilla dello Spirito, un tempio abitato dalla Maestà divina, alla quale tutto si consacra con amore. «In cella - dicono gli Statuti - la nostra attività scaturisca sempre come da una sorgente interiore, sull'esempio di Cristo, che opera sempre con il Padre, di modo che il Padre, dimorando in lui, compia egli stesso le opere. Così seguiremo Gesù nella sua umile e nascosta vita di Nazaret, sia pregando il Padre nel segreto, sia lavorando al suo cospetto in spirito di obbedienza».



Pace e gioia


Consacrare tutta la propria vita a Dio nella contemplazione è sorgente di pace e di gioia sempre nuove. Tale è stata l'esperienza di San Bruno, che, secondo la testimonianza dei suoi figli, aveva sempre il viso in festa. Nella sua lettera alla comunità della Certosa egli apre la sua anima traboccante di gioia e invita i suoi fratelli ad unirsi al suo canto di esultanza: «Veramente esulto e mi sento portato a lodare il Signore..... Gioite dunque, fratelli miei carissimi, per la felicità che avete avuto in sorte e per l'abbondanza della grazia di Dio verso di voi. Gioite, poiché siete sfuggiti ai molteplici pericoli e naufragi di questo mondo sballottato dalle onde. Gioite, poiché avete guadagnato il tranquillo e sicuro rifugio di un porto ben riparato».




Separazione dal mondo


I primi monaci certosini «seguivano il lume dell'oriente, ossia di quegli antichi monaci che, ardenti d'amore per il ricordo del Sangue del Signore versato di recente, popolarono i deserti per professarvi la vita solitaria e la povertà di spirito. Bisogna quindi che i certosini, calcando le loro orme, dimorino come loro in un eremo sufficientemente remoto dalle abitazioni degli uomini; ma soprattutto bisogna che si rendano essi stessi estranei anche alle preoccupazioni mondane». Secondo la tradizione dei Padri del deserto la ricerca dell'unione con Dio, nel modo più diretto possibile, richiede normalmente la separazione dal mondo. La pace esteriore della solitudine protegge la pace interiore del cuore. Così il monastero è costruito lontano da abitazioni, e ciascun monaco vive solo in cella all'interno della cinta muraria, astenendosi da ogni ministero, escluso quello della preghiera. Questo costituisce per il certosino un'esigenza che gli Statuti esprimono con forza: «Essendo il nostro Ordine totalmente dedito alla contemplazione, è necessario che conserviamo in modo assolutamente fedele la nostra separazione dal mondo. Ci asteniamo perciò da qualsiasi ministero pastorale, pur nell'urgente necessità di apostolato attivo, per adempiere nel Corpo mistico di Cristo la nostra funzione specifica».


Guigo, il monaco a cui lo Spirito ha affidato la missione di redigere la prima regola dei certosini, da parte sua ha celebrato al seguito di tutti i Padri le ricchezze spirituali offerte al solitario: «Sapete infatti che nell'Antico e soprattutto nel Nuovo Testamento quasi tutti i più grandi e profondi segreti furono rivelati ai servi di Dio non nel tumulto delle folle, ma quando erano soli. Gli stessi servi di Dio, tutte le volte che li accendeva il desiderio di meditare più profondamente qualche verità o di pregare con maggiore libertà o di liberarsi dalle cose terrene con l'estasi dello spirito, quasi sempre evitavano gli ostacoli della moltitudine e ricercavano i vantaggi della solitudine (…) considerate voi stessi quanto profitto spirituale nella solitudine trassero i santi e venerabili padri Paolo, Antonio, Ilarione, Benedetto e innumerevoli altri, e avrete la prova che nulla, più della solitudine, può favorire la soavità della salmodia, l'applicazione alla lettura, il fervore della preghiera, le penetranti meditazioni, l’estasi della contemplazione e il dono delle lacrime».Esodo nel deserto «Lasciare il mondo per dedicarsi nella solitudine ad una preghiera più intensa, non è altro che un particolare modo di esprimere il mistero pasquale di Cristo, che è una morte per una resurrezione». La Sacra Scrittura presenta l'Esodo attraverso il deserto come l'evento principale della storia d'Israele. Sotto la guida di Mosè gli ebrei uscirono dall'Egitto; e dopo aver attraversato il Mar Rosso, vissero quaranta anni nel deserto. Non mancarono le prove, ma giunti nel cuore del deserto, al Sinai, Dio si manifestò in modo straordinario e concluse con loro un'alleanza. I Padri della Chiesa e tutti i monaci hanno visto nell'Esodo una prefigurazione dell'itinerario mistico dell'uomo alla ricerca di Dio. Guigo nel suo elogio della vita solitaria ha ricordato al certosino l'esempio dei grandi contemplativi della Bibbia, che nella solitudine hanno vissuto il mistero dell'incontro con Dio: Giacobbe, che lottò solo con l'Angelo e ricevette la grazia di un nome migliore; Elia, che visse per lungo tempo nel burrone di un torrente e marciò quaranta giorni e quaranta notti fino all'Oreb dove Dio si manifestò a lui in una brezza leggera; Eliseo, che amava ritirarsi in preghiera nella camera al piano superiore preparata dalla sunamita; e soprattutto Giovanni Battista, che è considerato come il patrono degli eremiti. Lo stesso Gesù ha cercato la solitudine: subito dopo il suo battesimo nel Giordano fu condotto nel deserto dallo Spirito Santo; ed in molti episodi dei vangeli lascia la folla e si ritira solo sulla montagna per pregare; un giorno invita i suoi apostoli ad andare in disparte in un luogo solitario; infine solo sulla croce, abbandonato da tutti, si offre al Padre per la salvezza del mondo. Il monaco, seguendo Cristo nel deserto, partecipa al mistero che riconduce nel seno del Padre il Figlio crocifisso e resuscitato dai morti. Nella solitudine egli compie un vero Esodo spirituale, in cui dalla morte sgorga una nuova vita.




Solitudine della cella


La clausura nel cui interno si pone il monastero è per il certosino il segno visibile della sua separazione dal mondo. Al di fuori dello spazio settimanale il monaco non è autorizzato a uscire dalla casa, salvo in rari casi e per una reale necessità. Lo stesso priore della Gran Certosa, pur essendo superiore generale dell'Ordine, non oltrepassa mai i limiti del suo deserto. Tuttavia è soprattutto nel segreto della loro cella che i padri vivono la loro vocazione di solitari; mentre i fratelli la vivono in parte nella cella e in parte nelle obbedienze dove essi lavorano. Ciascuno ha così la sua propria solitudine nel seno di un monastero, che è esso stesso solitario. Gli Statuti ricordano a tutti che la cella è un luogo privilegiato di unione con Dio: «Il nostro impegno e la nostra vocazione consistono principalmente nel dedicarci al silenzio e alla solitudine della cella. Questa è infatti la terra santa e il luogo dove il Signore e il suo servo conversano spesso insieme, come un amico col suo amico. In essa frequentemente l'anima fedele viene unita al Verbo di Dio, la sposa è congiunta allo Sposo, le cose celesti si associano alle terrene, le divine alle umane». Anche le obbedienze di lavoro sono separate le une dalle altre come le celle, e sono organizzate affinché si salvaguardi il più possibile la solitudine. In tal modo la solitudine è adeguata alla situazione di ognuno. I Padri del deserto hanno celebrato a gara i benefici della fedeltà alla cella, dove il solitario, secondo un'immagine usata da loro e ripresa dagli Statuti Certosini, si trova come un pesce nell'acqua. Guglielmo di Saint-Thierry scrisse ai certosini di Mont-Dieu: «la cella non deve esser mai una reclusione forzata ma una dimora di pace; la porta chiusa non nascondiglio ma ritiro. Colui con il quale Dio è, infatti, non è mai meno solo di quando è solo. Allora infatti gode liberamente della propria gioia; allora egli stesso è suo per godere di sé e di sé in Dio».




Il silenzio


Silenzio e solitudine vanno di pari passo, poiché il primo protegge la solitudine interiore e favorisce il raccoglimento: «Solamente colui che ascolta nel silenzio percepisce il mormorio del vento leggero che manifesta il Signore». I certosini sono dei fratelli che vivono fianco a fianco nel silenzio, rispettando reciprocamente il loro colloquio interiore con Dio. Grande è la virtù del silenzio. «Benché nei primi tempi tacere possa essere una fatica, gradualmente, se saremo stati fedeli, dallo stesso nostro silenzio nascerà in noi l’attrattiva verso un silenzio ancora maggiore». L'incontro dell'anima con Dio avviene al di là di ogni discorso, in un semplice scambio di sguardi: linguaggio dell'amore che non è altro che il linguaggio dell'eternità. «Noi riconosceremo la qualità della parola divina, quando consacreremo il tempo in cui non abbiamo da parlare ad un silenzio privo di preoccupazioni e accompagnato da un'ardente ricordo di Dio». Vi è infatti un silenzio interiore che è ben più difficile della semplice assenza di parole. Esso consiste nel distaccarsi da pensieri erranti che penetrano nel cuore attraverso l'immaginazione. I Padri del deserto a questo riguardo mettevano i loro discepoli in guardia, e cercavano al di sopra di tutto la purezza di cuore, ossia l'amore di Dio preferito ad ogni altra cosa. Come scrisse uno di essi, Cassiano: «In vista dunque della purezza di cuore tutto deve essere compiuto e inteso da noi. Per essa deve essere cercata la solitudine.... Pertanto le virtù che vi si accompagnano, e cioè i digiuni, le veglie, la solitudine, la meditazione delle Scritture, ci conviene esercitarle in vista dello scopo principale, vale a dire della purezza di cuore, che è la carità»




Fratelli in Cristo


Lo scopo di tutta la vita monastica è la perfezione dell'amore di Dio. Ma il Cristo ci ha insegnato che non si possono separare l'amore di Dio e l'amore del prossimo; l'uno e l'altro si approfondiscono insieme. Tutta la vita cristiana, e dunque anche la vita certosina, comportano una dimensione fraterna. Durante l'ultima cena Gesù ha detto: «vi do un comandamento nuovo: amatevi gli uni gli altri. Come io vi ho amato, così anche voi amatevi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri». L'apostolo San Giovanni, indirizzandosi alle prime comunità cristiane, fa eco alle parole del suo Maestro: «Ecco il comandamento che abbiamo ricevuto da Lui: chi ama Dio, ami anche il suo fratello... Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l'amore viene da Dio. Chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore..... Se ci amiamo gli uni gli altri Dio dimora in noi e il suo amore è perfetto in noi.... Dio è amore; chi sta nell'amore dimora in Dio e Dio dimora in lui». Come già detto, i certosini formano una famiglia; essi sono dei solitari che vivono come dei fratelli riuniti attorno a Cristo presente in mezzo ad essi. Solitudine e vita fraterna si equilibrano mutuamente: una solitudine che non è isolamento o ripiegamento su sé stessi, ma desiderio di Dio e comunione dei santi; una vita comunitaria che non è né libero sfogo né ricerca di compensazioni affettive, ma ricerca delle esigenze dell'amore, se c'è bisogno fino alla croce. Nella vita concreta del certosino non mancano le occasioni di mettere in pratica la carità fraterna, dal semplice sorriso, quando capita di incontrare un fratello con cui non si è potuto rompere il silenzio, fino ad altri momenti in cui la carità può rivelarsi più difficile, poiché l'amore vero esige sovente la rinuncia a se stesso: «Se non siamo d'accordo con un altro, sappiamolo ascoltare, e cerchiamo di capire il suo modo di vedere.... di certo conviene in modo tutto speciale a noi, che dimoriamo nella casa del Signore, testimoniare la carità che procede da Dio, accogliendo amorevolmente i fratelli coi quali conviviamo e sforzandoci di comprenderne con il cuore e la mente i temperamenti e i caratteri, sebbene diversi dai nostri». All'interno di una vera solitudine il certosino conosce la gioia di essere unito a dei fratelli con legami di reciproco affetto; così da poter cantare con il salmista: «Quanto è buono e quanto è soave che i fratelli vivano insieme!».Il monaco «non può entrare nella quiete contemplativa, se non dopo essersi cimentato nello sforzo di una dura lotta, sia mediante le austerità nelle quali persiste per la familiarità con la Croce, sia mediante quelle visite con le quali il Signore lo avrà provato come oro nel fuoco… lungo è il cammino attraverso brulla e riarsa strada prima di arrivare alle fonti d'acqua e alla terra promessa». Perché il monaco possa pervenire all'unione intima con Dio, il suo cuore e il suo spirito devono essere purificati nel crogiolo dell'ascesi. La solitudine, la beata solitudine, certi giorni può essere molto dolorosa: in assenza di ogni scappatoia, per valida che sia (di distrazione, avrebbe detto Pascal), il monaco è lasciato di fronte a se stesso in una povertà e nudità spesso radicali. Poiché in definitiva non sono tanto il quadro e il genere di vita che mettono alla prova, quanto piuttosto ciò che essi rivelano ad ognuno: i propri deserti e le proprie miserie. Vivere nella solitudine alla ricerca di Dio solo non concede molte soddisfazioni alla natura umana; chiede piuttosto una grande spoliazione a livello dello spirito e del cuore. Il monaco rinuncia a tutto ciò che renderebbe vana la clausura esterna del monastero: evita le visite di parenti ed amici (dalla regola sono previsti due giorni all'anno per i parenti più prossimi); salvo necessità si astiene dal comunicare per lettera o per telefono con le persone esterne; non legge libri profani, e ancor meno le riviste e i giornali che possono turbare il suo silenzio interiore. Gli Statuti dell'Ordine Certosino vietano esplicitamente la presenza di radio e televisione nei monasteri. Il certosino dunque, in parte controcorrente in una società dove regna la triade avere- sapere- potere, riprende il cammino delle virtù evangeliche, altro modo di chiamare l'ascesi. Umiltà, povertà, castità, obbedienza, pazienza, temperanza, e al di sopra di tutto la carità: ecco ciò che nello scorrere dei giorni egli apprende alla scuola dello Spirito Santo. Tra tutte queste virtù conviene sottolineare il posto privilegiato dell'obbedienza. Secondo la parola di una grande figura del deserto, «noi preferiamo molto di più l'obbedienza all'ascesi, perché l'ascesi è maestra d'orgoglio, mentre l'obbedienza è messaggera di umiltà». In effetti l'obbedienza, prima ancora delle diverse pratiche di penitenza, è per il monaco la traduzione nel vissuto quotidiano della rinuncia alla propria volontà. Certo tutti i religiosi fanno voto di obbedienza, ma il monaco solitario deve essere particolarmente fedele a tale impegno, poiché più grande è per lui il rischio di divenire maestro di se stesso. Attraverso la mediazione del priore, testimone e garante dell'opera dello Spirito in coloro che sono a lui affidati, e di una saggia guida spirituale, egli si aprirà e si offrirà docilmente all'azione dello Spirito Santo. L'ascesi sarà di ben poca utilità se non scava e libera uno spazio aperto ad un incontro, se non conduce all'uomo nuovo, ricreato secondo Dio. Il certosino sa che non può “possedere” Dio, in una preghiera continua, se prima non si lascia spossessare da Lui, divenendo sempre più spogliato di tutto, distaccato da tutto. Povero per Dio, egli allora sarà ricco di Dio. Liberato da Dio, Egli diventa libero per Lui ed in Lui. «Gli istituti dediti interamente alla contemplazione, tanto che i loro membri si occupano solo di Dio nella solitudine e nel silenzio, nella preghiera continua e nella gioiosa penitenza, pur nella urgente necessità di apostolato attivo, conservano sempre un posto eminente nel corpo mistico di Cristo, in cui "tutte le membra non hanno la stessa funzione"». I contemplativi sono nel cuore della Chiesa; essi compiono una funzione essenziale nella comunità ecclesiale: la glorificazione di Dio. Il certosino si ritira nel deserto innanzitutto per adorare Dio, per lodarlo, per ammirarlo, per lasciarsi sedurre da Lui, per donarsi a Lui, e questo a nome di tutti gli uomini. La sua vocazione è di cantare la lode nella Chiesa di oggi, in attesa di farlo con la totalità degli eletti alla presenza di Dio nell'eternità. Ogni giorno, in tutti gli uffici liturgici e nella celebrazione dell'Eucaristia essi pregano per tutti i vivi e i morti. Per mezzo di Cristo, «che è alla destra di Dio, vivente per sempre per intercedere a favore degli uomini», essi portano davanti a Dio le attese e i problemi del mondo, insieme alle gravi intenzioni e preoccupazioni della Chiesa intera.






IO CERCO IL TUO VOLTO!


di Padre Claudio


Ecco quello che potremmo qualificare come la ricerca del volto di Dio. Il volto di Dio che rifulge nella Pasqua del Cristo costituisce una dimensione costitutiva della liturgia Pasquale e svela definitivamente chi è il Maestro per il quale s'intraprende e si rinnova un cammino di sequela. Il Salmo antico sembra suggerirci l'ispirazione spirituale attorno alla quale tutto si raccoglie: «Di te ha detto il mio cuore: "Cercate il suo volto » ; il tuo volto, Signore, io cerco. Non nascondermi il tuo volto ... » (Sal 27,8-9). Il volto di chi sta in mezzo a noi «come colui che serve»La narrazione di Lc 22,14-34 è un testo capace di condurci con immediatezza e profondità nel clima di quella cena di vigilia, intenzionalmente programmata nell'imminenza della passione di Gesù. Siamo colpiti da una rivelazione folgorante del Maestro («io sto in mezzo a voi come colui che serve... ») proprio nel cuore d'una discussione mondana (su «chi è il più grande»). Ed è mondana proprio perché è ben lontana dal riconoscere il volto vero di Gesù; non è infatti quello di chi ha potenza e garantisce perciò i favori ai suoi fedelissimi. Il dibattito tra i dodici evidenzia una distanza grande tra Gesù e i discepoli, nonostante il contesto di straordinaria familiarità. E’ lontano dal volto vero di Gesù anche Pietro; lo pensa meno esigente, se presume di garantire con sicurezza la propria perseveranza (v. 33).E lo è soprattutto Giuda che ha ormai collocato altrove il proprio cuore; quel volto del Maestro gli diviene del tutto insopportabile.I tratti del volto di Gesù vanno cercati piuttosto in altre direzioni, sempre aiutati dal racconto lucano. Sono quelli che sottolineano come il Maestro sia colui che desidera una comunione vera: «ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione ... » (v. 15). Lui che prega per noi, come ha fatto per Pietro: «ma io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede», affidando addirittura a dei discepoli fragili il compito di aiutare i fratelli: «e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli» (v.32). Soprattutto ha il volto di chi si mette a servire gli altri pur essendo lui il più grande: «chi è il più grande tra voi diventi come il più piccolo, e chi governa come colui che serve» (v. 26). Di fronte a un volto così rinasca una scelta di discepolato autentico; e si faccia strada sempre più nitidamente la libertà d'una consegna di se stessi umile e insieme tenace, propria di chi ha imparato a non presumere delle proprie forze e a confidare in Dio. E ci persuada fino in fondo quella modalità tipicamente cristiana d'essere maestro servendo i fratelli. Siamo al cuore della nostra vocazione di discepoli. Da considerare il pensiero vibrante e profondo di Paolo: il volto di Dio che Gesù ci ha svelato non coprirà l'incoerenza di chi si trincera nell'osservanza delle tradizioni religiose e non rinnova invece il cuore e la vita («quando vi radunate insieme, il vostro non è più un mangiare la cena del Signore»: 1 Cor 11,20). E' solo il volto inatteso e straordinario di Gesù che s'incammina nella sconcertante strada della Passione proclamata dal testo evangelico di Matteo a dischiuderci la buona notizia del Vangelo. «Il tuo volto Signore io cerco». Ti preghiamo così Signore, rinnovando la nostra dedizione della vita, per radicarci nell'appartenenza a te. Solo questa densità di discepolato può dare sostanza alla fede che viviamo; perché sia quello della vita donata, del servizio gratuito e gioioso al Signore e alla Chiesa. Perciò nei secoli la fede ha cercato quel Volto su cui far riposare la sua sete, da cui attingere la pace, anticipo della bellezza eterna: il Volto di Cristo è stato rappresentato, evocato, inseguito. Di questo sguardo ci parla proprio quest’anno Benedetto XVI: "Anche oggi lo sguardo commosso di Cristo non cessa di posarsi sugli uomini e sui popoli". E mai come oggi "è necessario che il nostro sguardo sull’uomo si misuri su quello di Cristo… Occorre cercare quello sguardo, farsi pellegrini verso quella luce". Abbiamo trovato accesso ad una vita nuova e pienamente consapevole mediante il lieto annuncio di Cristo. Nelle gioie e nelle fatiche di ogni giorno celebriamo comunitariamente, in letizia, la sua Cena, che ci dà la forza di perseverare nonostante tutte le prove e le sofferenze. Signore, luce e salvezza delle anime nostre, ravviva in noi la fiducia nel tuo amore:donaci la forza di credere e di sperare, fino al giorno in cui,nella terra dei viventi, potremo contemplare la tua bontà !

Desiderio di solitudine

di S.Agostino, Esposizioni sui Salmi, 54,8

Chi mi darà le ali come colomba? e volerò e mi riposerò (Sal 54,7). Il salmista bramava la morte, oppure desiderava la solitudine. Dice in sostanza: Mi si propone, anzi mi si ordina, di amare i nemici; e intanto le offese di costoro, sempre più frequenti e già in grado di avvolgermi come in un`ombra, sconvolgono il mio sguardo, turbano la mia vista, feriscono il mio cuore, uccidono l`anima mia. Vorrei andarmene, per non restare qui e non aggiungere peccati a peccati, ma sono debole. Rimarrei volentieri alquanto segregato dal genere umano, in modo che la mia ferita non riceva colpi su colpi e, una volta guarito, possa riprendere la battaglia. Sono cose che accadono, fratelli; e spesso sorge nell`animo del servo di Dio il desiderio della solitudine, proprio a causa delle infinite tribolazioni e degli scandali. Dice: «Chi mi darà le ali?». Si accorge di essere senza ali, o piuttosto vede che le sue ali sono legate? Se non le ha, gli siano date! Se sono legate, vengano sciolte! Perché chi apre le ali all`uccello è come se gliele desse o restituisse. L`uccello le aveva, ma erano come non sue, finché con esse non poteva volare. Anzi, le ali legate costituiscono un fardello...
Non di rado si fanno tentativi per correggere certi uomini fuorviati, disonesti, che pure sono affidati alle nostre cure. Nonostante tutto, riesce vano, nei loro riguardi, ogni sforzo, ogni vigilanza umana. Non si riesce a correggerli; non resta che sopportarli. Eppure, colui che non riesci a correggere è uno dei tuoi: tuo perché, come te, fa parte del genere umano, oppure perché molte volte è della tua stessa comunità ecclesiale. E` uno che sta dentro le porte: e tu che farai? Dove andrai? Dove ti vorrai appartare per non dover più soffrire certe cose? Stagli, invece, più vicino che puoi! Parla, esorta, attira, minaccia, rimprovera! «Ma ho fatto tutto ciò» dici, «ho usato e impegnato ogni mia forza. Nonostante tutto, però, mi accorgo di non essere riuscito a nulla. Ci ho messo tutta la cura. Non mi è rimasto che il dolore... Non posso giovare loro. Oh, voglia il cielo che io mi possa riposare in qualche luogo (separato da loro con il corpo, non con l`amore), in modo che in me tale amore non sia turbato! Non posso giovare loro con le mie parole, con i miei ragionamenti; forse potrò essere loro utile con la mia preghiera...».
Un tale desiderio dev`essere necessariamente nel cuore; ma in grado di possederlo sarà solo colui che avrà cominciato a camminare per la via stretta. Saprà certamente, un uomo di questa tempra, che non mancano alla Chiesa le persecuzioni, neanche in questo tempo in cui essa sembra essere al sicuro da quelle persecuzioni che subirono i nostri martiri. Non mancano, nemmeno oggi, le persecuzioni, perché sono vere le parole: Tutti coloro che vogliono piamente vivere in Cristo subiranno persecuzione (2Tm 3,12). Se non subisci persecuzione, è segno che non hai deciso di vivere piamente in Cristo. Vuoi provare la verità di queste parole? Comincia a vivere piamente in Cristo. Che cosa significa vivere piamente in Cristo? Significa: fatti entrare in cuore ciò che dice l`Apostolo: Chi si ammala e io non mi ammalo? Chi si scandalizza e io non brucio? (2Cor 11,29). Le infermità degli altri, gli scandali degli altri, per lui erano altrettante persecuzioni. Forse che esse mancano nel nostro tempo?



Da luoghi profondi io grido


di David Wilkerson13 Settembre 1999


"Da luoghi profondi io grido a te, o Eterno. O Signore, ascolta il mio grido; siano le tue orecchie attente alla voce delle mie suppliche. Se tu dovessi tener conto delle colpe, o Eterno, chi potrebbe resistere, o Signore? Ma presso di te vi è perdono, affinché tu sia temuto." (Salmi 130:1-4).
Davide soffrì incredibilmente sotto la verga punitiva del Signore. Da ogni lato, le cose divenivano orribilmente sbagliate nella sua vita. Dovette affrontare travolgenti fiumane di afflizioni, terribili malattie fisiche, tragedie sopra tragedie, un regno in tumulto. Le sue afflizioni divennero talmente grandi che non pensava di poter sopravvivere. Ed egli gridava: "Salvami, o DIO, perché le acque sono giunte fino alla gola. Sono affondato in un profondo pantano e non trovo alcun punto d'appoggio; sono giunto in acque profonde, e la corrente mi travolge." (Salmi 69:1-2). Eppure le afflizioni esteriori di Davide non gli procuravano tanto fastidio quanto i suoi orrori interiori. Aveva paura che il Signore lo avesse completamente abbandonato. Scriveva: "Tu mi hai posto nella più profonda fossa, in luoghi tenebrosi, negli abissi." (Salmi 88:6). "Su di me si è abbattuta la tua ira ..."(verso 7). "... ho sofferto i tuoi terrori ..." (verso 15). "Sopra di me è passata la tua ardente ira ..." (verso 16). Davide credeva che Dio lo avesse abbandonato a causa del suo peccato – un pensiero che semplicemente non poteva sopportare. Egli supplicava: "Non mi sommerga la corrente delle acque, non m'inghiottisca l'abisso e non chiuda il pozzo la sua bocca su di me." (Salmi 69:15). Stava dicendo" Oh Signore, per favore – non lasciarmi cadere così in basso che non possa più venirne fuori!" Davide si angustiava anche a causa dello scandalo che egli aveva causato in Israele. Il suo peccato era stato manifestato e tutto il mondo lo conosceva. La sua afflizione prodotta dal peccato che aveva causato era traboccante, ed egli supplicava Dio: "...non farmi essere l'oggetto di scherno dello stolto." (Salmi 39:8). Davide aveva anche paura che Dio potesse prendere la sua vita come punizione per il suo peccato. Ogni volta che si destava, era assalito dal pensiero di poter essere abbattuto fino alla polvere dalla collera di Dio. Egli implorava: "O Eterno, non sgridarmi nella tua indignazione, e non punirmi nella tua ira." (Salmi 38:1). Nello stesso tempo che Davide era assalito da queste ansietà, la sua anima veniva riempita dal santo timore di Dio. Egli confessava: "Mi ricordo di DIO e gemo..." (Salmi 77:3). Abbiamo ora una domanda sconcertante. Perché Davide era afflitto, se tutti i suoi ricordi delle opere di Dio nella sua vita gli portavano gioia e felicità? Quale possibile afflizione lo tormentava? Davide era stremato perché tutti i suoi pensieri erano occupati da come Dio si sarebbe occupato del suo peccato. Egli sentiva la punizione del Signore nella sua carne; gli strali della verità trapassavano la sua anima con ferocia. "Poiché le tue frecce mi hanno trafitto..." (Salmi 38:2). La coscienza di quest'uomo poneva su di lui un grande peso. Sapeva di avere peccato contro tutto l'amore e la luce che aveva ricevuto dal Cielo. Il Signore lo aveva benignamente liberato in ogni tempo, dai suoi fallimenti trascorsi. Questa volta Davide sapeva di meritare di essere abbattuto. Per cui si sentiva sempre più avvolto dall'afflizione e dalla confusione; quindi scriveva: "... le mie iniquità mi hanno raggiunto e non posso vedere; sono più numerosi dei capelli del mio capo ..." (Salmi 40:12).
Conosco molti cristiani che sono come Davide. Amano Gesù – ma hanno peccato tremendamente contro la luce che gli è stata data. Hanno ascoltato migliaia di retti sermoni, letto la Bibbia giornalmente per anni, trascorso innumerevoli ore in preghiera. Eppure essi hanno peccato contro le benedizioni di Dio. Come? Essi hanno un peccato che li attanaglia ma di cui non si sono mai occupati! Nel tempo, questo peccato ha eliminato la loro comunione con Gesù. Ed ora lo Spirito Santo ha toccato il loro vizio, fermandoli prima dell'irreparabile. Li sta avvisando: "Basta – questo peccato deve sparire! Io non posso indulgere verso la via che hai preso nell'assecondarlo. Da ora in poi, devi prendere una decisione. Ti ho mostrato il tuo peccato – ma presto esso sarà manifestato a tutto il mondo!"Ogniqualvolta ora essi entrano nella casa di Dio, non riescono ad alzare la loro testa. E supplicano come fece Davide: "I miei peccati sono troppo numerosi per essere contati! La mia iniquità ha preso così possesso di me che non riesco a voltare la mia faccia verso il cielo!" Hanno perso tutta la gioia, il conforto e la libertà che essi un tempo provavano. Non sono più capaci di pregare o cantare non avendo più vivacità o forza. E si portano dietro un grande senso di fallimento. Sono diventati deboli, spiritualmente ammalati, rassegnati, pronti a perdersi d'animo. Sanno bene che questo è accaduto a causa del loro peccato che ha distrutto la comunicazione con Dio! Quanto ho detto, descrive la condizione della vostra anima in questo momento? Se è così, ringrazia Dio per la Sua misericordia. Egli sta infondendo dentro te un santo timore del Signore! Questo è il motivo per il quale stai affondando ancora di più nelle profondità della convinzione di condanna. Sei sotto il peso di una coscienza afflitta! ... (continua)