venerdì 14 marzo 2008

Uno sguardo da storici sulla Passione di Cristo


di Pd. Raniero Cantalamessa
Luca 22, 14-23,56.


Nel vangelo della domenica delle Palme ascoltiamo per intero il racconto della passione secondo S. Luca. Ci poniamo la questione cruciale, quella per rispondere alla quale furono scritti i vangeli: perché un uomo così è finito sulla croce? Quale il motivo e chi i responsabili della sua morte?Secondo una teoria che ha cominciato a circolare in seguito alla tragedia della Shoa degli ebrei la responsabilità della morte di Cristo ricade principalmente, anzi forse esclusivamente, su Pilato e l’autorità romana, il che indica che la sua motivazione è più di ordine politico che religioso. I vangeli hanno scagionato Pilato e accusato di essa i capi dell’ebraismo per tranquillizzare le autorità romane sul loro conto e farsele amiche. Questa tesi è nata da una preoccupazione giusta che tutti oggi condividiamo: togliere alla radice ogni pretesto all’antisemitismo che tanto male ha procurato al popolo ebraico da parte dei cristiani. Ma il torto più grave che si può fare a una causa giusta è quello di difenderla con argomenti sbagliati. La lotta all'antisemitismo va posta su un fondamento più solido che una discutibile (e discussa) interpretazione dei racconti della Passione. L'estraneità del popolo ebraico, in quanto tale, alla responsabilità della morte di Cristo riposa su una certezza biblica che i cristiani hanno in comune con gli ebrei, ma che purtroppo per tanti secoli è stata stranamente dimenticata: "Colui che ha peccato deve morire. Il figlio non sconta l'iniquità del padre, né il padre l'iniquità del figlio" (Ez 18,20). La dottrina della Chiesa conosce un solo peccato che si trasmette per eredità di padre in figlio, il peccato originale, nessun altro. Messo messo al sicuro il rifiuto dell'antisemitismo, vorrei spiegare perché non si può accettare la tesi della totale estraneità delle autorità ebraiche alla morte di Cristo e quindi della natura essenzialmente politica di essa. Paolo, nella più antica delle sue lettere, scritta intorno all'anno 50, dà, della condanna di Cristo, la stessa fondamentale versione dei vangeli. Dice che i “giudei hanno messo a morte Gesú” (1 Ts 2,15), e sui fatti accaduti a Gerusalemme poco tempo prima del suo arrivo in città egli doveva essere informato meglio di noi moderni, avendo, un tempo, approvato e difeso “accanitamente” la condanna del Nazareno.Non si possono leggere i racconti della Passione ignorando tutto ciò che li precede. I quattro vangeli attestano, si può dire a ogni pagina, un contrasto religioso crescente tra Gesù e un gruppo influente di giudei (farisei, dottori della legge, scribi) sull'osservanza del sabato, sull'atteggiamento verso i peccatori e i pubblicani, sul puro e sull'impuro. Una volta però dimostrata l’esistenza di questo contrasto, come si può pensare che esso non abbia giocato alcun ruolo al momento della resa finale dei conti e che le autorità ebraiche si siano decise a denunziare Gesù a Pilato unicamente per paura di un intervento armato dei romani, quasi a malincuore? Pilato non era una persona sensibile a ragioni di giustizia, tale da preoccuparsi della sorte di un ignoto giudeo; era un tipo duro e crudele, pronto a stroncare nel sangue ogni minimo indizio di rivolta. Tutto ciò è verissimo. Egli però non tenta di salvare Gesù per compassione verso la vittima, ma solo per un puntiglio contro i suoi accusatori, con i quali era in atto una guerra sorda fin dal suo arrivo in Giudea. Naturalmente, questo non diminuisce affatto la responsabilità di Pilato nella condanna di Cristo, che ricade su di lui non meno che sui capi ebrei. Non è il caso, oltre tutto, di volere essere “più ebrei degli ebrei”. Dalle notizie sulla morte di Gesù, presenti nel Talmud e in altre fonti giudaiche (per quanto tardive e storicamente contraddittorie), emerge una cosa: la tradizione ebraica non ha mai negato una partecipazione delle autorità religiose del tempo alla condanna di Cristo. Non ha fondato la propria difesa negando il fatto, ma semmai negando che il fatto, dal punto di vista ebraico, costituisse reato e che la sua condanna sia stata una condanna ingiusta. Alla domanda: “perché Gesú fu condannato a morte”, dopo tutte le ricerche e alternative proposte, si deve dunque dare ancora la risposta che danno i vangeli. Fu condannato per un motivo essenzialmente religioso, che però venne abilmente formulato in termini politici per meglio convincere il procuratore romano. Il titolo di Messia su cui era imperniata l’accusa del Sinedrio, nel processo davanti a Pilato diventa “Re dei giudei” e questo sarà il titolo di condanna che verrà appeso alla croce: “Gesú Nazareno Re dei giudei”. Gesú aveva lottato tutta la vita per evitare questa confusione, ma alla fine sarà proprio essa a decidere della sua sorte.Questo lascia aperto il discorso sull'uso che si fa dei racconti della Passione. In passato essi sono stati usati spesso (per esempio in certe rappresentazioni teatrali della Passione), in maniera impropria, con forzature antigiudaiche. Questa è cosa oggi da tutti fermamente riprovata, anche se forse qualcosa resta ancora da fare per eliminare dalla celebrazione cristiana della Passione tutto ciò che può offendere la sensibilità dei fratelli ebrei. Gesú fu e resta, nonostante tutto, il dono più grande che l’ebraismo ha fatto al mondo. Un dono, tra l’altro, che ha pagato a caro prezzo… La conclusione che possiamo tirare dalle considerazioni storiche fatte è dunque che potere religioso e potere politico, i capi del sinedrio e il procuratore romano, parteciparono entrambi, per motivi diversi, alla condanna di Cristo. Dobbiamo aggiungere subito che la storia non dice tutto e neppure l’essenziale su questo punto. Per la fede, a mettere a morte Gesú siamo stati tutti noi con i nostri peccati. Lasciamo ora da parte le questioni storiche e dedichiamo qualche istante a contemplare Lui. Come si comporta Gesú nella Passione? Sovrumana dignità, pazienza infinita. Non un solo gesto o una parola che smentisca quello che egli aveva predicato nel suo vangelo, specialmente nelle Beatitudini. Egli muore chiedendo il perdono per i suoi crocifissori.E tuttavia nulla in lui che somigli all'orgoglioso disprezzo del dolore dello stoico. La sua reazione alla sofferenza e alla crudeltà è umanissima: trema e suda sangue nel Getsemani, vorrebbe che il calice passasse da lui, cerca sostegno nei suoi discepoli, grida la sua desolazione sulla croce: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?".Un tratto di questa sovrumana grandezza di Cristo nella Passione soprattutto mi affascina: il suo silenzio. “Gesú taceva” (Mt 26, 63). Tace davanti a Caifa, tace davanti a Pilato che si irrita del suo silenzio, tace davanti ad Erode che sperava vederlo fare un miracolo (cf. Lc 23, 8). "Oltraggiato non rispondeva con oltraggi, e soffrendo non minacciava vendetta", dice di lui la Prima lettera di Pietro (2, 23). Solo un istante prima di morire rompe il silenzio e lo fa con quel “alto grido” che emette sulla croce spirando e che strappa al centurione romano la confessione: “Veramente querst’uomo era figliodi Dio” .

Adora il Signore Dio tuo e a lui solo rendi culto (Chiara Lubich)


In Quaresima la Chiesa ci ricorda che la nostra vita è un cammino verso la Pasqua, quando Gesù, con la sua morte e risurrezione, ci introduce nella vita vera, all'incontro con Dio. Un cammino non privo di difficoltà e di prove, paragonato ad una traversata del deserto. Fu proprio nel deserto, mentre stava andando verso la terra promessa, che il popolo d'Israele abbandonò, per un momento, il suo Dio e adorò il vitello d'oro. Anche Gesù ripercorre lo stesso cammino nel deserto e anche lui è tentato da Satana di adorare il successo e il potere. Ma Egli taglia netto con ogni lusinga del male e si rivolge con decisione verso l'Unico Bene:


Adora il Signore Dio tuo e a lui solo rendi culto


Come è stato per il popolo ebraico e per Gesù, così anche per noi, nel nostro quotidiano, non mancano le tentazioni a farci deviare verso percorsi più facili. Esse ci invitano a cercare la nostra gioia e a riporre la nostra sicurezza nell'efficienza, nella bellezza, nel divertimento, nel possesso, nel potere..., realtà di per sé positive, ma che possono essere assolutizzate e che spesso la società propone come autentici idoli. E quando non si riconosce e non si adora Dio, subentrano inevitabilmente altri "dèi" ed ecco riapparire il culto dell'astrologia, della magia...Gesù ci ricorda che la pienezza del nostro essere non sta nella ricerca di queste cose che passano, ma nel metterci davanti a Dio, dal quale tutto proviene, e riconoscerlo per quello che Egli veramente è: il Creatore, il Signore della storia, il nostro Tutto: Dio! Se lassù in Cielo, dove siamo incamminati, lo loderemo incessantemente, perché non anticipare fin da adesso la nostra lode a Lui? Che sete sentiamo, a volte, anche noi di adorare, lodandolo nel fondo del nostro cuore, vivo nel silenzio dei tabernacoli e nella festante assemblea dell'Eucaristia…


Adora il Signore Dio tuo e a lui solo rendi culto


Ma che cosa significa "adorare" Dio? E' un atteggiamento che va diretto solo a Lui. Adorare significa dire a Dio: "Tu sei tutto", cioè: "Sei quello che sei"; ed io ho il privilegio immenso della vita per riconoscerlo. Adorare significa anche aggiungere: "Io sono nulla". E non dirlo solo a parole. Per adorare Dio occorre annientare noi stessi e far trionfare Lui in noi e nel mondo. Questo implica il costante abbattimento dei falsi idoli che siamo tentati di costruirci nella vita. Ma la via più sicura per giungere alla proclamazione esistenziale del nulla di noi e del tutto di Dio è tutta positiva. Per annientare i nostri pensieri non abbiamo che da pen­sare a Dio ed avere i suoi pensieri che ci sono rivelati nel Vangelo. Per annientare la no­stra volontà non abbiamo che da compiere la sua volontà che ci viene indicata nel mo­mento presente. Per annientare i nostri affetti disordinati basta aver in cuore l'amore ver­so di Lui ed amare i nostri prossimi condividendone le ansie, le pene, i problemi, le gioie. Se siamo "amore" sempre, noi, senza che ce ne accorgiamo, siamo per noi stessi nulla. E perché viviamo il nostro nulla, affermiamo con la vita la superiorità di Dio, il suo essere tutto, aprendoci alla vera adorazione di Dio.


Adora il Signore Dio tuo e a lui solo rendi culto


Quando tanti anni fa scoprimmo che adorare Dio significava proclamare il tutto di Lui sul nulla di noi, componemmo una canzone che diceva: "Se su nel ciel si spengono le stelle / se ogni giorno muore / se l'onda in mar s'annulla e non riprende / è per la tua gloria. / Che il creato canta a Te: / Tutto sei. / Ed ogni cosa dice a sé: / nulla son!" Il risultato del nostro annullarci per amore era che il nostro nulla veniva riempito dal Tutto, Dio, che entrava nel nostro cuore.

lunedì 10 marzo 2008

Vivere nel mondo come veri adoratori di Dio

Cesare Nosiglia, arcivescovo di Vicenza (19 agosto 2005)


vi "consegno" questo meraviglioso discorso di questo pastore "illuminato" dall'Amore di Dio fatto ai giovani ad una GMG sulla necessità di adorare Dio e delle conseguenze nella vita di tutti i giorni. L'ho trovato molto saggio ed edificante, buona lettura!

Chi ha Dio non manca di nulla


I falsi idoli del nostro tempo sono tanti e si impongono in modi forti e coinvolgenti. L’inganno che in genere propongono è affascinante: diventare più liberi e poter decidere di sé come meglio piace. In realtà, seguendoli si diventa sempre più succubi e schiavi e ci si lega al loro potere, che, a poco a poco, diventa come una droga, impossibile da dominare o distruggere. L’idolatria è una schiavitù che si traduce in costume di vita e governa i propri sentimenti e le proprie azioni.L’uomo non può fare a meno di adorare Dio, magari un suo dio costruito, come il vitello d’oro dell’Esodo (cap. 32) a proprio uso e consumo. C’è chi erige a dio il sesso e se ne lascia sedurre e conquistare diventandone servo fino alle più estreme conseguenze; chi il denaro e la ricchezza di beni materiali; chi il potere e il primato sugli altri.
Anche la negazione di Dio, il più puro ateismo, in realtà conduce ad adorare qualcuno: se stesso. Il proprio io è eretto ad assoluto, la ragione a dogma e ciò che piace ad unica regola morale da seguire. Conseguenza? L’illusione, la noia infinita, il non senso della vita, la ricerca di esperienze sempre più estreme e ai limiti della stessa vita fino all’autodistruzione di se stessi e alla morte.C’è poi una tentazione molto sottile, che percorre la vita di ogni giorno, quella di credersi comunque capaci di fermarsi sul baratro, di poter smettere e ritornare indietro. Il ragazzo che comincia ad usare le droghe leggere pensa: "Ci provo tanto poi quando voglio smetto" e così passo, passo arriva a quelle pesanti e ne diventa succube. Lo stesso discorso vale per la sete di denaro, di piacere, di soddisfazione ed orgoglio. Il mito del successo, dell’avere sempre di più, del prevalere sugli altri, dell’apparire ed essere ammirato, si accompagna con la ricerca di ritualità misticheggianti, di riti satanici, fatti magari per scherzo, all’inizio, e poi sperimentati in modi e forme sempre più violente e devastanti.
Senza Dio non si può vivere? Bene, allora Dio è dappertutto, è dentro di me ed io posso essere lui, identificarmi, immergermi in lui. Dio è una entità cosmica che tutto abbraccia e comprende dentro di sé, anche la mia persona e la mia vita. La religione vera è il non averne una di precisa, ma al contrario abbracciarle tutte in un indefinito panteismo universale, che tutte le svuota del loro credo e di fatto fa di Dio una proiezione di se stesso.Essere adoratori dell’unico Dio va contro tutte queste forme alla moda, che vengono reclamizzate anche tra i giovani mediante la musica, il canto, internet e i linguaggi metaverbali che raggiungono il cuore prima che la mente e le orecchie. E’ per questo che il Papa afferma perentoriamente: "L’adorazione del vero Dio costituisce un autentico atto di resistenza contro ogni forma moderna di idolatria".
1. Che cosa significa adorare l’unico vero Dio?
Non vuol dire solo dire di no a tutte queste forme di idolatria, ma in positivo mettere Dio al primo posto nella propria esistenza e farne il metro di giudizio per le scelte ed i comportamenti. Il vero Dio, rivelato da Cristo, è una persona reale e concreta, entrata nella storia con fatti e parole ed infine nella persona stessa del suo Figlio. Possiamo qui riferirci ad un episodio del Vangelo che tutti conoscete, l’incontro di Gesù con la samaritana al pozzo di Sicar (cfr. Gv 4).
La donna si scandalizza che Gesù parli con lei ed adduce come motivo il fatto che lei è samaritana e lui giudeo. Poi quando viene messa davanti alla sua situazione di vita, ricca di contraddizioni e di non felicità, riconosce che Gesù è un profeta ed aggiunge: "I nostri padri hanno adorato Dio su questo monte e voi dite che è Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare Dio". Gesù le risponde: "Credimi, donna, è giunto il momento che né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre. Ma è giunto il momento ed è questo in cui i veri adoratori adoreranno Dio in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori. Dio è spirito e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità". Questo significa che dal momento in cui Gesù è venuto sulla terra, Dio si è reso visibile e vicino, chi lo vuole adorare lo può fare accogliendo lo Spirito del Signore e la sua Parola di verità. Come dire: lo deve adorare nell’Amore e nella verità. Chi adora Dio nell’amore vive di amore e lo manifesta nelle sue azioni come faceva Gesù. Chi lo adora nella verità non si lascia fuorviare da falsi messaggi ed idoli e cerca l’incontro con la Verità che è Cristo stesso. La donna samaritana, che crede in Cristo e lo riconosce Messia, diviene adoratrice di Dio in spirito e verità e subito testimonia e parla a tutti gli abitanti di Samaria di quello che ha udito e visto e di come Gesù le abbia rivelato la verità della sua vita e le abbia donato l’acqua viva che disseta la sua sete di amore e di verità.Così siamo chiamati a fare noi che crediamo in Cristo e vogliamo vivere ogni giorno come veri adoratori di Dio in spirito e verità.
2. Quali sono le scelte coraggiose di testimonianza del Dio vero nel nostro ambiente di vita?
I Magi ce ne indicano subito una molto importante: "per un’altra strada fecero ritorno al loro paese" (Mt 2, 12).Questo cambiare strada indica la conversione che chiunque incontra Gesù è invitato a compiere. Convertirsi non è questione di un momento, ma di una vita. Sempre siamo in via di conversione. Ogni volta che ascoltiamo la Parola di Dio essa ci svela ombre e luci della nostra vita e ci sprona affinché abbiamo il coraggio di tagliare ciò che va tagliato, egoismi, idolatrie, chiusure in se stessi, scarso amore verso gli altri, e di vincere il male con il bene. La Parola è come lampada che guida i nostri passi verso il Signore in un cammino spesso tenebroso ma segnato dalla fiducia in lui. Convertirsi significa anche lottare con coraggio contro le opere della carne, che impediscono allo Spirito di fruttificare in noi. Infatti, l’uomo vecchio con le sue passioni ingannatrici tende sempre a risorgere e a riconquistarci, ma lo Spirito, che viene in aiuto della nostra debolezza, ci sostiene per risultare vincitori. Il giovane ricco, che non ha il coraggio di lasciare le proprie ricchezze, mostra di non volersi convertire, perché è troppo legato alle sue sicurezze e non si fida di Cristo, malgrado abbia ricevuto da lui segni forti di amore. Desidererebbe tenere i suoi soldi e avere la vita eterna: Dio e il denaro. Ma non si può servire due padroni (cfr. Mt 6, 24).
Convertirsi significa anche seguire positivamente Gesù ed imitarlo: "Come ho fatto io fate anche voi". La sequela è certamente l’aspetto più coinvolgente della fede: come i Magi si sono fidati della stella e l’hanno seguita fino a Betlemme, così ogni credente deve fidarsi di Cristo e seguirlo senza timore. Lui è la via, la verità e la vita piena per ogni uomo (cfr. Gv 14, 6)."Vieni e seguimi": questa parola risuona anche oggi in molti di noi come è risuonata nel cuore dei primi discepoli. Per seguire il Signore bisogna alzarsi e andare dietro a lui; non bisogna voltarsi indietro, nostalgici di quello che abbiamo lasciato, perché chi mette mano all’aratro e poi si volge indietro, dice Gesù, non è degno di me (cfr. Lc 9, 62). Certo, le condizioni della sequela non sono facili, ma impegnative e a volte anche dolorose. Gesù non promette a chi lo segue ricchezza, potere, soddisfazione e beni materiali, carriera e riuscita nella vita. Al contrario, indica la via della croce, del perdono, della povertà più radicale, della purezza e della lotta per la giustizia. E’ deciso nelle sue richieste: "Se vuoi essere mio discepolo, va' vendi tutto quello che hai e dallo ai poveri, poi vieni e seguimi. Chi non rinuncia a tutti i suoi averi non può essere mio discepolo. Chi ama il padre e la madre più di me non è degno di me.... Chi vuole venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua" (cfr. Mt 13.19).
Trovare Cristo significa trovare il tesoro più prezioso, la perla più ricca per cui vale la pena vendere tutto, rinunciare ad ogni altra cosa al mondo per possederla. Nei vangeli il discepolato e le condizioni per seguire Gesù rappresentano una delle catechesi più presenti e concrete con cui si misura la nostra vita. E sono sempre condizioni che riguardano tutti i cristiani, non solo alcuni prediletti.
Ascoltiamo queste famose parole, profonde e cariche di amore appassionato per Dio, di una grande santa, Teresa di Avila, la quale dice:

Nulla ti turbi, nulla ti spaventi.
Tutto passa, Dio non cambia. Chi ha Dio non manca di nulla.
Dio solo basta.

Mi direte: "Teresa era una monaca ed è normale che parlasse così!". Io vi dico che questa esperienza è possibile anche a ciascuno di voi. Dio si comunica ad ognuno così. Tocca a noi saperlo accogliere con la stessa intensità di amore di santa Teresa. La via della sequela diviene possibile e quotidiana, se osserviamo una regola di vita semplicissima: imitare Gesù. Poiché lui è uomo come noi, la sua umanità ci è di esempio circa la possibilità di vivere anche noi la nostra umanità nei suoi vari aspetti ogni giorno."Come ho fatto io, fate anche voi": come si comporterebbe Gesù se fosse al mio posto? Proviamo ad applicare questa regola ad ogni nostra azione e scelta di comportamento e vedremo quanto diventa fattibile l’imitazione di Cristo, almeno come programma e obiettivo da perseguire. Così Cristo diviene il nostro maestro e la nostra via. Egli, lo sappiamo, non sta solo davanti a noi, come un modello, ma è anche dentro di noi con il suo Spirito e questo rende possibile imitarlo veramente, perché lo Spirito ci trasforma in lui. San Paolo arrivò a dire: "Non sono più io che vivo ma Cristo che vive in me" (Gal 2, 20). E ancora: "Per me vivere è Cristo" (Fil 1, 21).
Più uno si immette in questa prospettiva di sequela-imitazione e più gli si aprono davanti orizzonti grandi di impostazione di vita. Per me è stato così. Quando frequentavo la scuola superiore, ho meditato a lungo su questo tema e ho cominciato a sentire dentro di me il desiderio di orientare la mia vita sulla via del sacerdozio. A volte si sente dire che la vocazione al sacerdozio o alla vita consacrata nasce dal desiderio di dedicarsi agli altri, ai poveri, ai più bisognosi. E questo è certamente vero, perché donare la vita per gli altri fa parte delle vocazioni di speciale consacrazione. Io penso però che la radice e la motivazione vera di una vocazione non stia fuori di noi, non stia nel fare ma nell’essere, stia cioè dentro di noi. Essa sta nell’amore di Cristo che fa risuonare la sua chiamata dentro il cuore dell'uomo, lo vuole, lo interpella. Rispondere significa fare un patto d’amore, innamorarsi e decidere di cementare tale patto con il sì di fedeltà a Cristo. Egli, infatti, vuole che la vita dell'uomo diventi una cosa sola con la sua e così si offra agli altri in pienezza di amore come ha fatto lui."Li chiamò perché stessero con lui…e per mandarli a predicare": così la chiamata dei Dodici sottolinea questo discorso in modo evidente. La chiamata di Cristo è sempre per la felicità e la vita, come sottolinea Gesù stesso nel Vangelo rivolgendosi al giovane ricco: "Se vuoi essere felice e avere la vita eterna, seguimi" (cfr. Mc 10).
Anche qui voglio dirvi che chi risponde alla chiamata al sacerdozio o alla vita consacrata non lo fa rinunciando a qualcosa o a qualcuno, ma lo fa per acquistare qualcosa e qualcuno. E’ per amore di Cristo e dei fratelli che ci si fa preti o suore. La rinuncia ai beni della terra o a farsi una famiglia non è in primo piano, ma segue di conseguenza l’altra scelta d’amore totale per Cristo. "Se mi ami devi darmi tutto di te stesso e di te stessa" dice Cristo e questo diviene lo scopo primo della vocazione da cui scaturisce poi la forza di rendere unico ed assoluto tale amore, accogliendo in esso non una persona soltanto, ma tutte le persone; non un gruppo, una famiglia, una comunità, ma tutti gli uomini fino agli estremi confini della terra, se necessario. Questa totalità d’amore sta a fondamento del "per sempre" che il chiamato o la chiamata pronunciano davanti a Dio e alla Chiesa. Cosa del resto propria di ogni vocazione, a cominciare dalla vocazione battesimale dove il sì a Cristo conferma un patto di alleanza che nulla potrà mai distruggere per arrivare al matrimonio, al sì definitivo ed indissolubile che pronunciano gli sposi.
3. Vivere in questo mondo come adoratori del vero Dio significa infine raccontare a tutti l'esperienza di incontro con Gesù Cristo. Quando si incontra Cristo e si accoglie il Vangelo la vita cambia e si è spinti a comunicare agli altri la propria esperienza. Si è spinti, ma purtroppo spesso non si ha il coraggio di farlo, perché l’ambiente che ci circonda appare refrattario, indifferente o perché non si ritiene necessario disturbare un amico con simili proposte, alle quali magari non crede oppure crede ad altri messaggi religiosi. Ognuno ha diritto di avere la propria religione e a non essere forzato a cambiarla. Rispettiamoci così come siamo. La missione non è dunque una indebita ingerenza nella vita delle persone, le quali, nella nostra società, possono agevolmente e liberamente decidere se credere o non credere, se credere in Cristo o in un’altra religione. Un falso concetto di libertà fonda una cultura che, in materia religiosa, diviene neutra e dice no ad ogni forma di proselitismo o di coinvolgimento forzato. Questo principio è profondamente cristiano. Gesù tante volte dice: "Se vuoi essere mio discepolo" e rimprovera i giudei perché per fare un proselito passano il mare e i monti per rendere poi schiava la persona di precetti, che sono opera umana e non vengono da Dio.
La missione non è proselitismo, ma testimonianza ed invito che parte dalla propria esperienza non da principi ideologici o da volontà di ricavarne un vantaggio. La missione parte da altri presupposti, soprattutto l’amore a Cristo e all’uomo, e si realizza sul piano dell’annuncio accompagnato da segni concreti di solidarietà e di amore verso tutti, in particolare i più poveri e sofferenti, così come faceva Gesù.
Ci ricorda, in particolare, sant’Alberto Magno, sepolto nella chiesa di S. Andrea , e santa Teresa Benedetta della Croce, Edith Stein, perché come i Magi hanno saputo cercare la verità mediante la fede e la ragione mostrando che non c’è contraddizione tra queste due realtà, entrambe doni di Dio. Un invito che mi sembra oggi particolarmente importante per rendere la nostra fede motivata e sicura e dare alla nostra ricerca, intellettuale oltre che vitale, una solidità di riferimenti insieme biblici e culturali.
Se vuoi che la tua fede cresca e diventi forte, non devi tenerla chiusa in te stesso o dentro la tua vita, ma donarla, portarla agli altri senza timore, perché, alla fine, ti accorgerai che essa è diventata forte anche nel tuo cuore. Dio, infatti, scrive in grande quello che noi scriviamo in piccolo e trasforma in giardino anche il deserto là dove sembra tutto arido e dove è inutile piantare o irrigare. Ma il cuore dell’uomo, di ogni uomo, anche se appare un deserto, ha sempre un piccolo terreno buono dove il seme della Parola di Dio e del buon esempio può attecchire e produrre un frutto abbondante di conversione e di vita nuova. Non stanchiamoci, dunque, di evangelizzare, mai! Facciamolo con gioia, perché solo chi mostra di essere contento della propria fede in Cristo trasmette, quasi per osmosi, la buona notizia del Vangelo e apre vie impensabili di incontro con lui nel cuore di ogni persona ed in ogni ambiente. Amen.

Cercare la faccia di Dio


di David Wilkerson (7 Novembre 2005)

Una cosa ho chiesto all’Eterno e quella ricerco
(sal 27)

Nel Salmo 27, Davide invoca Dio con una preghiera impellente ed intensa. Prega nel verso 7: “O Eterno, ascolta la mia voce, quando grido a te; abbi pietà di me e rispondimi”. La sua preghiera è focalizzata su un solo desiderio, una sola ambizione, qualcosa che lo sta consumando: “Una cosa ho chiesto all’Eterno e quella ricerco” (27:4). Davide sta testimoniando: “Ho una preghiera, Signore, una sola richiesta. È l’obiettivo più importante della mia vita, la mia preghiera costante, l’unica cosa che desidero. Ed io la cercherò con tutto quanto ho di più caro in me. Questa è la cosa che mi consuma come mio unico obiettivo”.Qual era la cosa che Davide desiderava più di qualunque altra, l’oggetto che si era messo in cuore di ottenere? Ci dice: “Di dimorare nella casa dell'Eterno tutti i giorni della mia vita, per contemplare la bellezza dell'Eterno e ammirare il suo tempio” (27:4). Non fraintendetemi: Davide non era un ascetico, che viveva fuori dal mondo. Non era un eremita, che cercava di nascondersi in un luogo solitario e desertico. No, Davide era un uomo di azione appassionato. Era un grande guerriero, e grandi folle cantavano le sue vittorie in battaglia. Era anche appassionato nella preghiera e nella devozione, ed aveva un cuore che si struggeva per Dio. Ed il Signore aveva benedetto Davide concedendogli tanti desideri del suo cuore. In effetti, Davide aveva assaporato tutto ciò che un uomo avrebbe potuto desiderare nella vita. Aveva conosciuto il benessere e le ricchezze, il potere e l’autorità. Aveva ricevuto il rispetto, le lodi e l’adulazione degli uomini. Dio gli aveva dato Gerusalemme come capitale del regno. E Davide era circondato da uomini devoti che erano anche disposti a morire per lui. Ma la cosa più importante era che Davide era un adoratore. Era un uomo che lodava Dio, che Lo ringraziava per tutte le benedizioni ricevute. Testimoniava: “Il Signore aggiunge ogni giorno benedizioni su benedizioni in me”. Tuttavia, Davide era un uomo di guerra. Aveva affrontato nemici e problemi in tutta la sua vita. Tutto l’inferno era insorto per distruggere quest’uomo pio. Infatti, Davide in questo momento stava affrontando un intero campo nemico contro di lui, nemici malvagi che erano insorti per “divorare la mia carne” (27:2). Ma Davide non aveva paura. Nel primo verso di questo Salmo, dichiara: “Di chi temerò?” (27:1). Aveva fiducia nella grazia e nella misericordia di Dio, e sapeva che il Signore gli avrebbe dato forza: “Il Signore è la roccaforte della mia vita” (27:1). È chiaro che Davide avrebbe continuato come sempre a vivere appassionatamente la sua vita. Tuttavia, nonostante le benedizioni che aveva sperimentato, in lui mancava qualcosa. Riguardando indietro alla sua vita, Davide vedeva che un bisogno della sua anima ancora non era stato soddisfatto. La sua vita mancava di un punto, e per quello lui gridò a Dio. Davide stava dicendo, in effetti: “Sto cercando uno stile di vita – un posto al sicuro nel Signore che la mia anima desidera. Voglio una comunione ininterrotta con il mio Dio”. Era questo che Davide intendeva quando pregava: “Che io possa dimorare nella casa dell'Eterno tutti i giorni della mia vita, per contemplare la bellezza dell'Eterno e ammirare il suo tempio” (27:4). Davide qui non stava parlando di lasciare il suo trono per trasferirsi nel tempio materiale di Dio. No, il suo cuore bramava qualcosa che aveva visto nello spirito. Davide non voleva fermarsi alle solite riunioni di adorazioni settimanali. Aveva capito che c’era qualcosa di Dio che lui ancora non aveva ottenuto, e non si sarebbe dato pace finché non lo avrebbe ottenuto. Diceva, in breve: “C’è una bellezza, una gloria, un’euforia del Signore che io non ho ancora visto nella mia vita. Vorrei sapere cosa significa avere comunione ininterrotta con il mio Dio. Ho conosciuto vittorie, sono stato liberato, ho visto la sua mano operare miracoli – ma desidero ancora qualcosa di incrollabile. Voglio che la mia vita sia una preghiera vivente. Solo questo mi permetterà di continuare a vivere il resto dei miei giorni”.

CONTEMPLAZIONE


Chi vuole vivere nella vera dimensione spirituale deve pensare, in un certo senso, come Dio. Deve saper scusare, dimenticare e trarre ciò che é buono da tutte le creature. L’uomo spirituale coltiva in sé la magnanimità e la benevolenza verso tutti e non giudica nessuno. Allora potrà diventare spontaneamente dolce, perché in lui non si agitano sentimenti contrastanti che provengono dal suo orgoglio o dal suo egoismo. E' necessario cercare di contemplare nella preghiera e nella meditazione continua Colui che diciamo di amare. I veri innamorati fondono i loro cuori e finiscono per assomigliarsi. Se ci si sforza di imitare il Verbo ne assimilerai le virtù. L’amore é sempre contagioso. Se si rimane nell’umiltà e si riconosce che é Dio che ci ha amato per primo, Egli ci condurrà nelle alte vette dell’Amore. E come abbiamo portato l’immagine dell’uomo di terra, così porteremo l’immagine dell’uomo celeste.

Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, ma una sola é la cosa di cui c'é bisogno. Maria si é scelta la parte migliore, che non le sarà mai tolta.(Gesù)

Chi é un asceta, se non colui che diminuisce in sé le funzioni vitali(riproduzione nella castità; alimentazione nel digiuno,dispersione mondana nell'adorazione e nella preghiera, autonomia nell'obbedienza) per suscitare o esaltare in sé certe funzioni volitive o conoscitive che sono assopite nella vita ordinaria? Con la continenza, l'asceta ottiene una purificazione dell'intelligenza che gli permette di vedere e di comprendere realtà che il libertino non conosce.Chi digiuna s'accorge che la sua attenzione si acuisce...(J.Guitton)

Bisogna sentire quanto è pericolosa la tentazioe di diventare troppo facilmente religiosi, quanto è insinuate l'illusione di immaginarsi di diventarlo con poca spesa, senza poter quasi fare altrimenti.(Kierkegaard)

Cerco il Tuo volto. Cerco di sovrapporlo a tutti i volti, i visi e le impressioni del vivere. (Padre Albino Candido)

C'è sempre qualcuno o qualcosa che distorce la mia attenzione da Te. E' normale che il ritorno a Te mi costi disturbo, distacco da me e rinunzia a ciò che non è Te. (Padre Albino Candido)

La maggior parte della anime si preoccupa di andare in cielo e di evitare l'inferno...Molti indossano come una livrea la mia chiamata a seguirmi, conservando nel cuore i loro desideri. Quanto pochi lavorano per conoscere i miei desideri e realizzarli! (Gesù a Suor Maria della Trinità)

Sono nella S.Eucarestia, sono in te e nelle tue Sorelle. Ogni volta che ti rivolgi a una delle tue sorelle tu mi incontri di nuovo, rinnovi la tua comunione con me. (Gesù a Suor Maria della Trinità)

E' l'uomo più ricco di spirito che più facilmente rischia di diventare il commediante di se stesso. Non si accontenta mai di ciò che trova in sè. Non smette di alterarlo ripensandolo. Il suo vero essere è sempre per lui al di qua o al di là del suo essere presente; non arriva mai a distinguere ciò che immagina da ciò che sente. Trova in se stesso mille personaggi. concepisce mille possibilità che superano da ogni parte la realtà così come gli è data. ha bisogno di uno sforzo per volgersi ad essa, fissare su di essa il suo sguardo e stringerla più da vicino, mentre basterebbe spesso un po' di semplicità e di amore per arrivarci senza averlo voluto.(L.Lavelle)

L'estasi è uno stato di deconnessione con l'ambiente circostante che condiziona, per il soggetto, delle percezioni di un altro ordine : Dio e il mondo divino. L'identità del l'autentico veggente, comunque, non viene alterata, bensì intensificata e per questo la percezione visiva del mondo esterno viene annullata.(R.Laurentin)

Nell'estasi ogni comunicazione con il mondo esteriore è interrotta, l'anima ha il sentimento di comunicare con un oggetto interno che è l'Essere perfetto, infinito, Dio.E' la riunione dell'anima con il suo oggetto. tra l'anima e il suo oggetto non c'é più alcun intermediario. Essa lo vede, lo tocca, lo possiede, essa è in lui, essa è lui. non è più la fede che crede senza vedere. E' una unione perfetta nella quale l'anima si sente esistere pienamente, per il fatto stesso di darsi e di rinunciare a sé, perché Colui al quale si dà è l'essere e la Vita stessa.(Boutroux)

Il Signore dal cielo si china sugli uomini per vedere se esista un saggio: se c'é uno che cerchi Dio.(Sal.14)

Pretendiamo le comodità, il benessere e il lusso. Vogliamo divertirci. Che cosa avverrebbe se la nostra vita diventasse più austera? Il misticismo è incontestabilmente alla base delle grandi trasformazioni morali e l'umanità ne sembra più che mai lontana. (Bergson)

Occorre la solitudine per ritrovare l'equilibrio che certe compagnie ci fanno smarrire(H.F.Amiel)
Vero filosofo è colui che cerca gemendo. (Pascal)

Le mie vittime sono quasi immobili esternamente, mobilissime e attivissime interiormente. Ad esse io nulla posso negare, non all'attivismo esteriore di tanti Pastori.(Gesù a un Sacerdote)

Quando non si hanno consolazioni si serve Dio per se stesso; quando si hanno consolazioni, si è tentati di servirlo per interesse.(Curato d'Ars)

La mia preoccupazione principale non dovrebbe essere quella di trovare piacere o successo, salute o vita o danaro o riposo o anche cose quali la virtù o la saggezza - ancor meno i loro opposti: dolore, fallimento, malattia, morte. Ma in tutto ciò che avviene, mio solo desiderio e mia unica gioia dovrebbero essere il sapere: "Questo, Dio ha voluto per me. In questo trovo il suo amore, e nell'accettarlo io posso restituirgli il Suo amore, darmi con esso a Lui e crescere nella Sua volontà alla contemplazione, che è vita eterna." (T.Merton)

Non è vero che i santi e i grandi contemplativi non si siano mai interessati delle cose create, non abbiano compreso o apprezzato il mondo, ciò che in esso si vede o si ode, chi in esso vive... Proprio perché erano assorti in Dio, i santi erano veramente capaci di vedere di apprezzare le cose create, e proprio perché amavano Dio solo erano i soli ad amare tutti.(T.Merton)
L'Unico che possa insegnarmi a trovare Dio è Dio, Lui Stesso, Lui solo. (T.Merton)

La nostra scoperta di Dio è, in un certo senso, la scoperta che Dio fa di noi...Noi diventiamo contemplativi quando Dio scopre Se Stesso in noi. (T.Merton)

La contemplazione non è assolutamente perfetta se non è condivisa.(T.Merton)

La perfezione ultima della vita contemplativa non è un paradiso di individui separati, ciascuno dei quali gode di una visione particolare di Dio: è un mare di Amore che scorre attraverso all'Unico Corpo e all'Unica Anima di tutti gli eletti, di tutti gli angeli e i santi, e la loro contemplazione sarebbe incompleta se non fosse condivisa, o se fosse condivisa con meno anime, o con spiriti capaci di minor visione e di minor gioia.(T.Merton)

Anche quando cerco di piacere a Dio, tendo a piacere alla mia ambizione, sua nemica. Vi può essere imperfezione anche nell'amore ardente di una grande perfezione, anche nel desiderio di virtù, di santità. Anche il desiderio di contemplazione può essere impuro, quando dimentichiamo che vera contemplazione significa la completa distruzione di ogni egoismo, la più assoluta povertà e purezza di cuore. (T.Merton)

Andate nel deserto non per sfuggire gli altri uomini, ma per trovarli in Dio. (T.Merton)

Il poeta entra in se stesso per creare. Il contemplativo entra in Dio per essere creato. (T.Merton)

Sapientia e sapor hanno identica radice. L'essere non é senza sapore. Se i mistici hanno il gusto di Dio, significa che Dio ha sapore. Il termine non è più rischioso di molti altri.(F.Varillon)

Più mi identifico con Dio, più mi identificherò con gli altri che sono identificati in Lui.(T.Merton)

Silenzio non è mutismo. Il mutismo è un vuoto di parola nato da un vuoto d'anima. Ma il silenzio nutre la parola. (F.Varillon)

Nel momento in cui l'Io opera quella straordinaria conversione per mezzo della quale, distogliendosi dallo spettacolo sensibile offerto ai suoi occhi, dirige il suo sguardo verso il mondo interiore rimastogli nascosto fino allora, prova la gioia più perfetta che esista, la gioia della rivelazione. Allora l'universo non è più un oggetto estraneo a noi, un enigma da risolvere; non sta più davanti a noi, ma dentro di noi. Il suo segreto è il nostro segreto. (L.Lavelle)

Dopo aver vissuto a lungo nel mondo come uno straniero, colui che si rifugia nella solitudine vede un mondo nuovo che gli viene incontro per accoglierlo; così entrando nella solitudine gli sembra di romperla: solo il ricordo o il rimpianto di quel che ha lasciato possono fargli sentire la miseria del suo stato. (L.Lavelle)

Il mio bene è starmene presso Dio (Sal 72,28).

di S. Agostino (La città di Dio, 10,25 )

In questo salmo è chiaramente esposta la distinzione fra i due Testamenti, quello Vecchio, cioè, e quello Nuovo. Il salmista dice che, a causa delle promesse carnali e terrene, vedendo che abbondantemente si adempiono per gli empi, per poco non diede un mal passo, per poco i suoi piedi non smucciarono, pensando quasi di aver servito inutilmente Dio, vedendo che chi lo disprezza prospera nella felicità che egli da Dio sperava. Soggiunge di essere stato oppresso da questo problema, volendo rendersi conto perché le cose stiano così, fino a quando non entrò nel santuario di Dio e comprese la fine di quelli che pur sembrano felici a chi erra. Allora comprese che proprio nel momento in cui si innalzarono, furono abbattuti, vennero meno e perirono per le loro iniquità; e che tutto il cumulo della loro felicità terrena fu come un sogno per chi si sveglia e si trova privo delle gioie fallaci che sognava. Poiché essi ritenevano di essere grandi su questa terra, cioè in questa città terrena, il salmista soggiunse: Signore, tu ridurrai a nulla la loro immagine nella tua città (Sal 72,20). Che poi a lui giovasse aspettarsi anche gli stessi beni terreni dall`unico vero Dio, in cui potere tutto sta, lo mostra chiaramente dicendo: Sono rimasto davanti a te come un animale, ma sarò sempre con te (Sal 72,23). Disse «come un animale», cioè un essere privo di intelligenza. Intende dire: «Avrei dovuto desiderare da te quei beni che gli empi non possono avere in comune con me; non quei beni di cui li ho visti ricchi, tanto da ritenere di averti servito invano: li avevano infatti coloro che ti avevano rifiutato il loro servizio. Tuttavia, sarò sempre con te, perché anche per il desiderio di tali beni non ho ricercato altri dèi».
Poi seguono le parole: Mi hai tenuto per la destra, col tuo consiglio mi hai guidato e mi hai accolto in gloria (Sal 72,24); proprio come se appartenessero alla sinistra i beni di cui vide ricchi gli empi, tanto da venirne quasi meno. Che cosa c`è per me nel cielo, soggiunge, e che ho voluto da te sulla terra? (Sal 72,25). Rimprovera se stesso, dispiace a se stesso, e giustamente, perché possedendo un bene tanto grande nel cielo (come comprese poi), desiderò da Dio una felicità transitoria, fragile e per così dire infangata, qui sulla terra. «Venne meno il mio cuore e la mia carne, o Dio del mio cuore». E` un venire meno buono, da ciò che è inferiore a ciò che è superiore; precisamente come si dice in un altro salmo: Desidera e viene meno la mia anima negli atri del Signore (Sal 83,3), e in un altro ancora: L`anima mia viene meno nella tua salvezza (Sal 118,81). Tuttavia, avendo asserito che vennero meno sia il cuore che la carne, non soggiunse: Dio del mio cuore e della mia carne, ma: Dio del mio cuore. E` il cuore infatti che purifica la carne. Per questo il Signore dice: Mondate ciò che è dentro, e ciò che è fuori sarà mondo (Mt 23,26). E poi dice che Dio stesso è la sua eredità; non qualcosa ricevuta da Dio, ma proprio lui: Dio del mio cuore e mia eredità, o Dio, per tutti i secoli (Sal 72,26): fra tutte le cose che gli uomini eleggono, a lui piacque eleggere Dio. Ma tutti coloro che si allontanano da te, periranno: hai distrutto chiunque ti è stato infedele (Sal 72,27): cioè chi si abbandona all`amore per molti dèi. E finalmente segue il versetto, in vista del quale sembra che sia stato premesso tutto ciò che il salmo recita: Ma per me, il mio bene è starmene presso Dio: non andarmene lontano, non abbandonarmi a liberi amori. Ma la vicinanza a Dio sarà perfetta quando sarà libero tutto ciò che deve esserlo. Frattanto però vale ciò che segue: Porre in Dio la mia speranza (Sal 72,28). Ma dice l`Apostolo: Vedere già ciò che si spera, non è speranza: ciò infatti che si vede, come ancora sperarlo? Ma se speriamo ciò che non vediamo, noi l`aspettiamo con paziente attesa (Rm 8,24-25). Ma noi, viventi ancora in questa speranza, adempiamo ciò che segue nel salmo, e saremo, a nostro modo, angeli di Dio, cioè suoi messaggeri: annunciando cioè la sua volontà e lodando la sua gloria e la sua grazia.


L'ADORAZIONE NELL'APOCALISSE di Giovanni


commento e spiegazione a cura di
ITALO MINESTRONI

TERZA SEZIONE LE SETTE TROMBE DEL GIUDIZIO (capp. 8-11)
Per due volte finora Giovanni ci ha fatto passa d'innanzi il panorama della storia della Chiesa: la prima volta, quando ha diretto le sette lettere alle sette Chiese; la seconda, quando in cielo ha mostrato l'Agnello che apre i sigilli del libro. Finora sono stati aperti sei sigilli, e prima che venisse aperto il settimo vi è stata una sospensione per dar modo a Giovanni di presentarci la Chiesa di Dio Militante sulla terra e la Chiesa trionfante in cielo. All'apertura del settimo sigillo sarà ora dato il via al suono delle SETTE TROMBE DEL GIUDIZIO. Queste trombe del giudizio non simboleggiano avvenimenti determinati, ma si riferiscono a calamità che sempre si succedono durante tutta questa era cristiana. Esse hanno da una parte un carattere retributivo, in quanto Dio punisce con esse gli oppositori e persecutori di Cristo e della Chiesa affinché si ravvedano; dall'altra simboleggiano solo i giudizi iniziali di Dio (e non l'esplosione totale della sua collera finale), che, pur toccando l'universo in varie parti, colpiscono solo una terza parte della terra, del mare, dell'acqua, del sole, della luna, delle stelle ecc. Questi giudizi divini seguono un certo ordine: i primi quattro danneggiano i cattivi nel loro essere fisico, gli ultimi tre recano angoscia spirituale. Inoltre, tali giudizi sono espressi in un linguaggio che ricorda le dieci piaghe d'Egitto: grandine e fuoco (8, 7), tenebre (8, 12), locuste (9, 3), ma si concretizzano in modo più terribile in quanto grandine e fuoco in Apocalisse sono misti a sangue, le locuste danneggiano non solo l'erba e gli alberi, ma anche gli uomini.
CAPITOLO VIII
APERTURA DEL SETTIMO SIGILLO LE QUATTRO PRIME TROMBE
(8, 1) «E QUANDO L'AGNELLO EBBE APERTO IL SETTIMO SIGILLO»: si tratta dell'ultimo sigillo, la cui apertura rende interamente aperto il libro della storia della Chiesa e del mondo. Allora «SI FECE SILENZIO NEL CIELO PER CIRCA LO SPAZIO DI MEZZ'ORA». Perché questo silenzio? Esso vuole mostrare l'intensa attesa con cui gli spiriti angelici e disincarnati in cielo seguono lo svolgersi del piano di Dio sulla terra, specialmente nei momenti che sembrano decisivi, allorché la retribuzione iniziale divina, pur sempre spaventosa e terribile, sta per riversarsi sui cattivi. Anche nei profeti dell'Antico Testamento la venuta del Signore per il giudizio è sempre introdotta con un riferimento al silenzio (Abacuc 2, 20; Sofonia 1, 7; Zaccaria 2, 13). Questo silenzio solenne si protrae «PER CIRCA LO SPAZIO DI MEZZ'ORA», durante il quale tace la gran voce di lode dei riscattati e tacciono i cori angelici. Tutto perciò è raccoglimento e adorazione silenziosa!
(8, 2) «E IO VIDI I SETTE ANGELI CHE STANNO IN PIE' DAVANTI A DIO»: questo "stare in piè" o tenersi davanti a Dio, esprime l'atteggiamento di chi è al servizio e agli ordini immediati di Dio. Il modo in cui qui si parla di questi sette angeli mostra che si tratta di angeli di ordine molto elevato, o di arcangeli. «E FURONO DATE LORO SETTE TROMBE»: una per ciascuno, affinché potessero fare intendere lontano l'annunzio dei grandi avvenimenti. Presso gli Ebrei venivano annunziate a suon di tromba la guerra, le feste (Numeri 10, 2 ecc.) e nelle Sacre Scritture esso annunzia dei grandi avvenimenti, nei quali si ha un intervento particolare di Dio (cfr. Esodo 19, 16.19; Numeri 16, 46; Gioele 2, 1; Matteo 24, 31 ecc.).
(8, 3) Quindi compare sulla scena «UN ALTRO ANGELO», il quale «SI FERMO' PRESSO L'ALTARE»; si tratta di un'immagine evocante l'altare d'oro dell'incenso o dei profumi, che nel tempio stava davanti alla cortina dell'arca. L'angelo «VENNE... AVENDO (in mano) UN TURIBOLO D'ORO» dentro cui c'era della brace accesa, che poi versò sull'altare. Quindi «GLI FURONO DATI MOLTI PROFUMI»: che cosa rappresentano questi profumi? Ci pare l'intercessione di Gesù in cielo a vantaggio della Sua Chiesa perseguitata, perché tale intercessione, che si basa sull'espiazione fatta da Gesù, purifica e santifica le preghiere dei credenti. Infatti si dice subito: «AFFINCHE' LI UNISSE ALLE PREGHIERE DI TUTTI I SANTI SULL'ALTARE D'ORO CHE ERA DAVANTI AL TRONO»: quei "profumi" sono uniti "alle preghiere di tutti i santi", che pregano essendo in tribolazione e nella persecuzione, ma le cui preghiere sono imperfette e hanno bisogno quindi di essere profumate dalla intercessione di Cristo.
(8, 4) Tanto è vero che a fusione avvenuta, il «FUMO DEI PROFUMI E DELLE PREGHIERE DEI SANTI SALI' DALLA MANO DELL'ANGELO AL COSPETTO DI DIO», significando ciò che le preghiere sono accolte in cielo.
(8, 5) L'angelo si rende conto che le preghiere sono state accolte e perciò «PRESE IL TURIBOLO» rimasto vuoto del fuoco accanto all'altare «E L'EMPI' DEL FUOCO DELL'ALTARE», ossia della brace su cui erano stati arsi i profumi e le preghiere nell'altare «E LO GETTO' SULLA TERRA»: dopo che Dio ha accolto le preghiere dei suoi santi, il fuoco che viene gettato sulla terra vuol significare la risposta di Dio a quelle preghiere mediante l'invio dei suoi giudizi su di essa, con i quali scatena i suoi flagelli sugli empi per convertirli o punirli. Emblemi e segni precursori di tali giudizi divini, che stanno per colpire la terra, sono «I TUONI E VOCI E LAMPI E UN TERREMOTO CHE SEGUIRONO» al versamento del fuoco sulla terra. Da notare che vi è un crescendo nella gravità dei giudizi divini di fronte alla crescente empietà, che ostinatamente resiste agli appelli di Dio. Nell'Apocalisse questa crescente gravità dei flagelli, non si osserva soltanto nella loro serie annunziata dalle trombe. Infatti, se si paragonano tra loro le tre serie di giudizi connessi prima con i sette sigilli, poi con le sette trombe e quindi con le sette coppe, si noterà che mentre i cavalieri hanno potestà sopra "la quarta parte della terra" (6, 8), i flagelli delle trombe colpiscono "la terza" parte della terra, del mare, ecc. Quelli poi che seguono al versamento delle coppe sulla terra sono assai più radicali (cap. 16): ogni essere vivente nel mare perisce, le acque dolci diventano sangue, il sole brucia gli uomini, il regno della bestia diventa tenebroso... A misura che aumenta l'empietà umana, i giudizi di Dio sono più severi. Poiché la prima serie dei giudizi divini, inflitti con l'apertura dei sette sigilli, ci ha condotti col sesto sigillo in vista del "gran giorno dell'ira", così la seconda serie con la settima tromba (11, 15-19) ci conduce parimenti alla soglia del giudizio. Questo, che si può constatare nella seconda (capp. 4-7) e terza sezione (8-11) della prima parte dell'Apocalisse, è anche facilmente constatabile nelle sezioni della seconda parte (di cui la prima nei capp. 12-14; la seconda nei capp. 15-16 e la terza nei capp. 17-19). Da ciò si rileva che ogni inizio di sezione ci riporta agli inizi della nostra economia cristiana per poi concludersi col giudizio finale, alla seconda venuta di Cristo. Questo carattere ciclico della tessitura dell'Apocalisse rende evidente che i flagelli minacciati e versati sulla terra prima dai cavalieri dei sette sigilli, poi dal suono delle sette trombe e quindi dal versamento delle sette coppe d'ira, non avvengono in ordine separato e progressivo ma sono tra loro contemporanei nella storia della Chiesa. I giudizi divini, cioè, possono essere ora più severi ora meno, secondo il beneplacito di Dio, ma tutti tendono a far ravvedere gli empi.
(8, 6) «E I SETTE ANGELI CHE AVEVANO LE SETTE TROMBE SI PREPARARONO A SUONARE»: i tuoni e i lampi avvertono gli angeli che è giunto il momento, in cui dovranno dare i loro segnali col suono delle trombe.
(8, 7) «E IL PRIMO (angelo) SONO' (la tromba) E VI FU GRANDINE E FUOCO»; come nella settima piaga d'Egitto (Esodo 9, 24), «MESCOLATI CON SANGUE CHE FURONO GETTATI SULLA TERRA», cosa che non si ebbe in Egitto e che qui forse vuol significare che il flagello cagionerà la morte di molti. In conseguenza «LA TERZA PARTE (della superficie) DELLA TERRA FU ARSA, E LA TERZA PARTE DEGLI ALBERI FU ARSA ED OGNI ERBA VERDE FU ARSA»: con la parola "erba" si intende tutta la vegetazione erbacea necessaria all'alimentazione dell'uomo e del bestiame. Da tenere presente che Giovanni, parlando di una "terza parte" colpita non intende una superficie contigua (come ad esempio continenti dell'Europa o dell'Asia), ma vuole intendere che l'insieme delle parti della terra colpite costituiscono complessivamente una terza parte di essa. Con tutta probabilità il castigo inflitto da questa prima tromba vuol significare che, durante tutta l'economia cristiana, Cristo affliggerà i persecutori della Sua Chiesa con vari flagelli.
(8, 8) «POI SONO' IL SECONDO ANGELO (la seconda tromba) E UNA MASSA SIMILE A UNA GRANDE MONTAGNA ARDENTE FU GETTATA NEL MARE». Si noti che Giovanni non vede una montagna ma "una massa simile a una montagna"; si tratta cioè di una massa infuocata aventi le dimensioni di una montagna. Essa simboleggia il terrore dei giudizi divini sul mare. In questa "massa ardente" gettata nel mare, alcuni hanno voluto vedere Satana infuriato, altri una grande eresia, altri la Chiesa invasa dal fanatismo, altri l'imperatore Vespasiano (69-79) sotto il cui impero fu distrutta Gerusalemme, e altri infine le invasioni barbariche. Si tratta di speculazioni cervellotiche. In essa è da vedere piuttosto tutta la calamità e tutti i disastri che avvengono in mare, il quale diviene strumento di Cristo per ammonire e punire gli empi. Il fatto che essa è "ardente" vuol simboleggiare gran turbamento e commozione (cfr. Salmo 46, 2; Isaia 34, 3; 54, 10; Ezechiele 38, 20; Michea 1, 5; Nahum 1, 5; Giobbe 9, 5 ecc.). Questo giudizio divino è più severo del primo: «LA TERZA PARTE DEL MARE DIVENNE SANGUE».
(8, 9) «E LA TERZA PARTE DELLE CREATURE VIVENTI CHE ERANO NEL MARE MORI', E LA TERZA PARTE DELLE NAVI PERI'», cioè venne distrutta e con essa i passeggeri ed equipaggio.
(8, 10) «POI SONO' IL TERZO ANGELO»: la terza tromba e con essa, dopo che sono stati colpiti la vegetazione e il mare, viene colpita la terza parte dei fiumi e delle fonti delle acque. Infatti, al suono della tromba «CADDE DAL CIELO UNA GRANDE STELLA, ARDENTE COME UNA TORCIA; E CADDE SULLA TERZA PARTE DEI FIUMI E SULLE FONTI DELLE ACQUE»: è Dio che fa cadere questa stella per realizzare i suoi giudizi.
(8, 11) «IL NOME DELLA STELLA E' ASSENZIO»: termine che qui indica un veleno mortale (Geremia 9, 15; 23, 15) e perciò si comprende come «LA TERZA PARTE DELLE ACQUE DIVENNE ASSENZIO, E MOLTI UOMINI MORIRONO A CAGIONE DI QUELLE ACQUE, PERCHE' ERANO DIVENUTE AMARE», cioè velenose (cfr. Esodo 15, 23; 2 Re 2, 19). Si tratterebbe di peste causata dalla insalubrità dell'acqua. Gli amanti delle speculazioni inutili hanno voluto vedere in questa stella un condottiero giudeo, oppure Attila re degli Unni, oppure gli eretici o qualche loro capo.
(8, 12) «POI SONO' IL QUARTO ANGELO, (la quarta tromba) E LA TERZA PARTE DEL SOLE FU COLPITA E LA TERZA PARTE DELLA LUNA E LA TERZA PARTE DELLE STELLE, AFFINCHE' LA LORO TERZA PARTE SI OSCURASSE E IL GIORNO NON RISPLENDESSE PER LA SUA TERZA PARTE E LO STESSO AVVENISSE NELLA NOTTE»: con ciò vengono descritti tutti i mali dovuti all'anormale funzionamento dei corpi celesti durante questa età del Vangelo. Questo giudizio ricorda la nona piaga d'Egitto (Esodo 10, 21-23) e richiama alla mente i profeti che parlano spesso di oscuramento della luce del giorno (Amos 8, 9; 5, 20; Gioele 2, 30-31; cfr Atti 2, 20), e le tenebre che invasero il paese d'Israele per oscuramento del sole, da mezzogiorno alle ore tre, alla morte di Cristo (Luca 23, 44). Non è possibile dire se l'oscuramento dei luminari celesti si riferisca a una diminuzione costante di un terzo della loro luce oppure al loro oscuramento totale durante una terza parte del giorno o della notte. E' inutile poi cercare qui la spiegazione fisica di un tale fenomeno. Quanti seguono la corrente della spiegazione storica dell'Apocalisse, vedono qui annunziata o la rovina del popolo d'Israele, o quella dell'Impero Romano con le invasioni dei barbari e con le stragi di Alarico e di Attila. Colo invece che seguono la corrente della interpretazione allegorica del libro, vi vedono un'eclissi straordinaria che oscura il sole della Rivelazione divina, la luna della sapienza umana e le stelle (i conduttori) della Chiesa Cristiana. Riteniamo più giusto considerare i quattro flagelli annunziati dalle prime quattro trombe come dei castighi che colpiscono la dimora, i mezzi di assistenza, le cose che allietano la vita degli uomini, onde tutti siano tratti a ravvedimento.
(8, 13) Quattro angeli hanno suonato le loro trombe ed ora v'è una sospensione. Giovanni quindi dice: «E GUARDAI E UDII UN'AQUILA CHE VOLAVA IN MEZZO AL CIELO», perciò in modo da poter essere vista e intesa da qualsiasi parte. Questa sospensione serve a distinguere il gruppo delle prime quattro trombe da quello delle tre seguenti, che annunzieranno flagelli più gravi delle precedenti, i quali colpiranno direttamente gli uomini. Il fatto che questo uccello sia "un'aquila" presagisce male, perché l'aquila è un eccello da preda (Matteo 24, 28): essa infatti è solitamente l'emblema del giudizio divino che piomba sugli uomini come l'aquila sulla preda (cfr. Deuteronomio 28, 29; Abacuc 1, 8). Perciò essa «DICEVA CON GRAN VOCE», in modo da essere udita da tutti, «GUAI, GUAI, GUAI A QUELLI CHE ABITANO SULLA TERRA, A CAGIONE DEGLI ALTRI SUONI DI TROMBA DEI TRE ANGELI CHE DEBBONO ANCORA SUONARE»: in altre parole essa annunzia che i tre restanti flagelli, che saranno annunziati dalle tre ultime trombe, saranno peggiori dei primi quattro per "quanti abitano sulla terra", ma specialmente per gli empi.

NEL SILENZIO, ASCOLTO DIO

IL SILENZIO, LA CONTEMPLAZIONE NELL'ESPERIENZA CERTOSINA DI SAN BRUNO
di Maria, Elisa, Enrico Marotta


«Quanta utilità e gioia divina rechino la solitudine e il silenzio dell'eremo a coloro che li amano, lo sanno solamente quelli che ne hanno fatto esperienza.
Qui, infatti, agli uomini forti è consentito raccogliersi quanto desiderano e restare con se stessi, coltivare assiduamente i germogli delle virtù e nutrirsi, felicemente, dei frutti del paradiso.
Qui si conquista quell'occhio il cui sereno sguardo ferisce d'amore lo Sposo,
e per mezzo della cui trasparenza e purezza si vede Dio.
Qui si pratica un ozio laborioso e si riposa in un'azione quieta.
Qui, per la fatica del combattimento, Dio dona ai suoi atleti la ricompensa desiderata, cioè la pace che il mondo ignora, e la gioia nello Spirito Santo.
Che cosa è tanto giusto e tanto utile, e che cosa così insito
e conveniente alla natura umana quanto l'amare il bene?
E che cosa altro è tanto bene quanto Dio? Anzi, che cosa altro è bene se non solo Dio?
Perciò l'anima santa, che, di questo bene, in parte percepisce l'incomparabile dignità, splendore e bellezza, accesa dalla fiamma d'amore dice:
L'anima mia ha sete del Dio forte e vivo;
quando verrò e mi presenterò davanti al volto di Dio?».

Così si esprimeva Bruno, il primo certosino. Parole folgoranti che, per tutti coloro di cui è il padre, tratteggiano e illuminano il cammino della contemplazione; ma anche parole disincantate, visto che non fanno che aprire l'orizzonte su un mistero insondabile e ineffabile. Ciò che è chiesto è di procedere sempre più lontano, sempre più in alto, sempre più in profondità.
Il Cristo
Gesù Cristo è «la via, la verità e la vita». Nessuno va al Padre senza passare attraverso di Lui, poiché «non vi è altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati». Di fatto la Parola che ha spiegato i cieli si è come nascosta nella carne di un popolo, fino a farsi essa stessa carne, per abitare in mezzo a noi. «Ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita, questo vi annunziamo!». Il Figlio nella sua carne ci rivela il Padre e fa di noi dei figli. «Hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te». Più noi siamo uniti a Cristo per mezzo della forza dei sacramenti e della fedeltà nella preghiera, e più, per Lui, con Lui ed in Lui, penetriamo nell'intimità del Padre.
Ascolto nel silenzio
Per disporsi ad un tale incontro niente è più importante di rimanere nell'ascolto. Divenire silenzio nell'ascolto del silenzio, al fine di percepire nel cuore di esso la voce dell'amato. «Dio conduce il suo servo nella solitudine per parlargli al cuore, ma solamente colui che ascolta nel silenzio percepisce il mormorio del vento leggero che manifesta il Signore. Abbia dunque familiare quel tranquillo ascolto del cuore che lascia entrare Dio da tutte le porte e da tutte le vie. Così, purificato dalla pazienza, consolato e nutrito dall'assidua meditazione delle Scritture, e introdotto dalla grazia dello Spirito nelle profondità del suo cuore, il monaco diverrà capace non solo di servire Dio, ma di aderire a lui». Mistero di ascolto, mistero di fede, mistero dello Spirito. Lui che condusse Gesù nel deserto e lo fece esultare di gioia, Lui per il quale l'amore di Dio è stato versato nei nostri cuori, e viene in soccorso della nostra debolezza perché non sappiamo come pregare, e ci insegna a dire: «Abbà! Padre!». Purificato, vivificato, fortificato per mezzo dell'amore di Cristo, rianimato, sospinto dal soffio dello Spirito, abbracciato nel desiderio dal Padre.... il monaco solitario entra in comunione con il Dio tre volte santo, partecipa allo scambio ineffabile di conoscenza e di amore che è la vita delle persone divine nella Trinità. Tutta la sua esistenza non diventa altro che stupore davanti alla bellezza infinita, immutabile e trascendente di Dio nell'immensità del suo amore.
Semplicità
Desiderare, contemplare, accostare il Dio tre volte santo, eterno ed insondabile, richiede una perseveranza a tutta prova, che non dispensa assolutamente dall'invocare il Signore della tenerezza e della misericordia. Di fatto per vivere negli anni un'esistenza fondata sulla sola contemplazione è necessario che questa vita sia improntata ad una grande semplicità. Lontano da ogni genere di complessità, di molteplicità e di dispersione, il solitario si attiene con forza all' «unico necessario». Egli ordina con equilibrio ed armonia tutte le cose all'unione con Dio, applicandosi serenamente al compito di ogni momento. L'alternanza di vita solitaria in cella e di vita comunitaria, di preghiera personale e liturgica, di studio e di lavoro manuale, come anche la differenza tra la sobrietà quotidiana e la letizia dei giorni di festa, lungi dall'essere fonte di dispersione, fanno della vita certosina un insieme sapientemente costruito, dove ogni elemento riceve piena forza e valore solo se visto nella totalità. Con un cuore semplice e uno spirito purificato, il monaco si sforza di fissare in Dio i suoi pensieri e le sue emozioni, al fine di divenire una dimora tranquilla dello Spirito, un tempio abitato dalla Maestà divina, alla quale tutto si consacra con amore. «In cella - dicono gli Statuti - la nostra attività scaturisca sempre come da una sorgente interiore, sull'esempio di Cristo, che opera sempre con il Padre, di modo che il Padre, dimorando in lui, compia egli stesso le opere. Così seguiremo Gesù nella sua umile e nascosta vita di Nazaret, sia pregando il Padre nel segreto, sia lavorando al suo cospetto in spirito di obbedienza».
Pace e gioia
Consacrare tutta la propria vita a Dio nella contemplazione è sorgente di pace e di gioia sempre nuove. Tale è stata l'esperienza di San Bruno, che, secondo la testimonianza dei suoi figli, aveva sempre il viso in festa. Nella sua lettera alla comunità della Certosa egli apre la sua anima traboccante di gioia e invita i suoi fratelli ad unirsi al suo canto di esultanza: «Veramente esulto e mi sento portato a lodare il Signore..... Gioite dunque, fratelli miei carissimi, per la felicità che avete avuto in sorte e per l'abbondanza della grazia di Dio verso di voi. Gioite, poiché siete sfuggiti ai molteplici pericoli e naufragi di questo mondo sballottato dalle onde. Gioite, poiché avete guadagnato il tranquillo e sicuro rifugio di un porto ben riparato».Separazione dal mondoI primi monaci certosini «seguivano il lume dell'oriente, ossia di quegli antichi monaci che, ardenti d'amore per il ricordo del Sangue del Signore versato di recente, popolarono i deserti per professarvi la vita solitaria e la povertà di spirito. Bisogna quindi che i certosini, calcando le loro orme, dimorino come loro in un eremo sufficientemente remoto dalle abitazioni degli uomini; ma soprattutto bisogna che si rendano essi stessi estranei anche alle preoccupazioni mondane». Secondo la tradizione dei Padri del deserto la ricerca dell'unione con Dio, nel modo più diretto possibile, richiede normalmente la separazione dal mondo. La pace esteriore della solitudine protegge la pace interiore del cuore. Così il monastero è costruito lontano da abitazioni, e ciascun monaco vive solo in cella all'interno della cinta muraria, astenendosi da ogni ministero, escluso quello della preghiera.
Questo costituisce per il certosino un'esigenza che gli Statuti esprimono con forza: «Essendo il nostro Ordine totalmente dedito alla contemplazione, è necessario che conserviamo in modo assolutamente fedele la nostra separazione dal mondo. Ci asteniamo perciò da qualsiasi ministero pastorale, pur nell'urgente necessità di apostolato attivo, per adempiere nel Corpo mistico di Cristo la nostra funzione specifica». Guigo, il monaco a cui lo Spirito ha affidato la missione di redigere la prima regola dei certosini, da parte sua ha celebrato al seguito di tutti i Padri le ricchezze spirituali offerte al solitario: «Sapete infatti che nell'Antico e soprattutto nel Nuovo Testamento quasi tutti i più grandi e profondi segreti furono rivelati ai servi di Dio non nel tumulto delle folle, ma quando erano soli. Gli stessi servi di Dio, tutte le volte che li accendeva il desiderio di meditare più profondamente qualche verità o di pregare con maggiore libertà o di liberarsi dalle cose terrene con l'estasi dello spirito, quasi sempre evitavano gli ostacoli della moltitudine e ricercavano i vantaggi della solitudine (…) considerate voi stessi quanto profitto spirituale nella solitudine trassero i santi e venerabili padri Paolo, Antonio, Ilarione, Benedetto e innumerevoli altri, e avrete la prova che nulla, più della solitudine, può favorire la soavità della salmodia, l'applicazione alla lettura, il fervore della preghiera, le penetranti meditazioni, l’estasi della contemplazione e il dono delle lacrime».
Esodo nel deserto
«Lasciare il mondo per dedicarsi nella solitudine ad una preghiera più intensa, non è altro che un particolare modo di esprimere il mistero pasquale di Cristo, che è una morte per una resurrezione». La Sacra Scrittura presenta l'Esodo attraverso il deserto come l'evento principale della storia d'Israele. Sotto la guida di Mosè gli ebrei uscirono dall'Egitto; e dopo aver attraversato il Mar Rosso, vissero quaranta anni nel deserto. Non mancarono le prove, ma giunti nel cuore del deserto, al Sinai, Dio si manifestò in modo straordinario e concluse con loro un'alleanza. I Padri della Chiesa e tutti i monaci hanno visto nell'Esodo una prefigurazione dell'itinerario mistico dell'uomo alla ricerca di Dio. Guigo nel suo elogio della vita solitaria ha ricordato al certosino l'esempio dei grandi contemplativi della Bibbia, che nella solitudine hanno vissuto il mistero dell'incontro con Dio: Giacobbe, che lottò solo con l'Angelo e ricevette la grazia di un nome migliore; Elia, che visse per lungo tempo nel burrone di un torrente e marciò quaranta giorni e quaranta notti fino all'Oreb dove Dio si manifestò a lui in una brezza leggera; Eliseo, che amava ritirarsi in preghiera nella camera al piano superiore preparata dalla sunamita; e soprattutto Giovanni Battista, che è considerato come il patrono degli eremiti. Lo stesso Gesù ha cercato la solitudine: subito dopo il suo battesimo nel Giordano fu condotto nel deserto dallo Spirito Santo; ed in molti episodi dei vangeli lascia la folla e si ritira solo sulla montagna per pregare; un giorno invita i suoi apostoli ad andare in disparte in un luogo solitario; infine solo sulla croce, abbandonato da tutti, si offre al Padre per la salvezza del mondo. Il monaco, seguendo Cristo nel deserto, partecipa al mistero che riconduce nel seno del Padre il Figlio crocifisso e resuscitato dai morti. Nella solitudine egli compie un vero Esodo spirituale, in cui dalla morte sgorga una nuova vita.
Solitudine della cella
La clausura nel cui interno si pone il monastero è per il certosino il segno visibile della sua separazione dal mondo. Al di fuori dello spazio settimanale il monaco non è autorizzato a uscire dalla casa, salvo in rari casi e per una reale necessità. Lo stesso priore della Gran Certosa, pur essendo superiore generale dell'Ordine, non oltrepassa mai i limiti del suo deserto. Tuttavia è soprattutto nel segreto della loro cella che i padri vivono la loro vocazione di solitari; mentre i fratelli la vivono in parte nella cella e in parte nelle obbedienze dove essi lavorano. Ciascuno ha così la sua propria solitudine nel seno di un monastero, che è esso stesso solitario. Gli Statuti ricordano a tutti che la cella è un luogo privilegiato di unione con Dio: «Il nostro impegno e la nostra vocazione consistono principalmente nel dedicarci al silenzio e alla solitudine della cella. Questa è infatti la terra santa e il luogo dove il Signore e il suo servo conversano spesso insieme, come un amico col suo amico. In essa frequentemente l'anima fedele viene unita al Verbo di Dio, la sposa è congiunta allo Sposo, le cose celesti si associano alle terrene, le divine alle umane». Anche le obbedienze di lavoro sono separate le une dalle altre come le celle, e sono organizzate affinché si salvaguardi il più possibile la solitudine. In tal modo la solitudine è adeguata alla situazione di ognuno. I Padri del deserto hanno celebrato a gara i benefici della fedeltà alla cella, dove il solitario, secondo un'immagine usata da loro e ripresa dagli Statuti Certosini, si trova come un pesce nell'acqua. Guglielmo di Saint-Thierry scrisse ai certosini di Mont-Dieu: «la cella non deve esser mai una reclusione forzata ma una dimora di pace; la porta chiusa non nascondiglio ma ritiro. Colui con il quale Dio è, infatti, non è mai meno solo di quando è solo. Allora infatti gode liberamente della propria gioia; allora egli stesso è suo per godere di sé e di sé in Dio».
Il silenzio
Silenzio e solitudine vanno di pari passo, poiché il primo protegge la solitudine interiore e favorisce il raccoglimento: «Solamente colui che ascolta nel silenzio percepisce il mormorio del vento leggero che manifesta il Signore». I certosini sono dei fratelli che vivono fianco a fianco nel silenzio, rispettando reciprocamente il loro colloquio interiore con Dio. Grande è la virtù del silenzio. «Benché nei primi tempi tacere possa essere una fatica, gradualmente, se saremo stati fedeli, dallo stesso nostro silenzio nascerà in noi l’attrattiva verso un silenzio ancora maggiore». L'incontro dell'anima con Dio avviene al di là di ogni discorso, in un semplice scambio di sguardi: linguaggio dell'amore che non è altro che il linguaggio dell'eternità. «Noi riconosceremo la qualità della parola divina, quando consacreremo il tempo in cui non abbiamo da parlare ad un silenzio privo di preoccupazioni e accompagnato da un'ardente ricordo di Dio». Vi è infatti un silenzio interiore che è ben più difficile della semplice assenza di parole. Esso consiste nel distaccarsi da pensieri erranti che penetrano nel cuore attraverso l'immaginazione. I Padri del deserto a questo riguardo mettevano i loro discepoli in guardia, e cercavano al di sopra di tutto la purezza di cuore, ossia l'amore di Dio preferito ad ogni altra cosa. Come scrisse uno di essi, Cassiano: «In vista dunque della purezza di cuore tutto deve essere compiuto e inteso da noi. Per essa deve essere cercata la solitudine.... Pertanto le virtù che vi si accompagnano, e cioè i digiuni, le veglie, la solitudine, la meditazione delle Scritture, ci conviene esercitarle in vista dello scopo principale, vale a dire della purezza di cuore, che è la carità»

Il monaco «non può entrare nella quiete contemplativa, se non dopo essersi cimentato nello sforzo di una dura lotta, sia mediante le austerità nelle quali persiste per la familiarità con la Croce, sia mediante quelle visite con le quali il Signore lo avrà provato come oro nel fuoco… lungo è il cammino attraverso brulla e riarsa strada prima di arrivare alle fonti d'acqua e alla terra promessa». Perché il monaco possa pervenire all'unione intima con Dio, il suo cuore e il suo spirito devono essere purificati nel crogiolo dell'ascesi. La solitudine, la beata solitudine, certi giorni può essere molto dolorosa: in assenza di ogni scappatoia, per valida che sia (di distrazione, avrebbe detto Pascal), il monaco è lasciato di fronte a se stesso in una povertà e nudità spesso radicali. Poiché in definitiva non sono tanto il quadro e il genere di vita che mettono alla prova, quanto piuttosto ciò che essi rivelano ad ognuno: i propri deserti e le proprie miserie. Vivere nella solitudine alla ricerca di Dio solo non concede molte soddisfazioni alla natura umana; chiede piuttosto una grande spoliazione a livello dello spirito e del cuore. Il monaco rinuncia a tutto ciò che renderebbe vana la clausura esterna del monastero: evita le visite di parenti ed amici (dalla regola sono previsti due giorni all'anno per i parenti più prossimi); salvo necessità si astiene dal comunicare per lettera o per telefono con le persone esterne; non legge libri profani, e ancor meno le riviste e i giornali che possono turbare il suo silenzio interiore.

Il certosino sa che non può “possedere” Dio, in una preghiera continua, se prima non si lascia spossessare da Lui, divenendo sempre più spogliato di tutto, distaccato da tutto. Povero per Dio, egli allora sarà ricco di Dio. Liberato da Dio, Egli diventa libero per Lui ed in Lui. «Gli istituti dediti interamente alla contemplazione, tanto che i loro membri si occupano solo di Dio nella solitudine e nel silenzio, nella preghiera continua e nella gioiosa penitenza, pur nella urgente necessità di apostolato attivo, conservano sempre un posto eminente nel corpo mistico di Cristo, in cui "tutte le membra non hanno la stessa funzione"». I contemplativi sono nel cuore della Chiesa; essi compiono una funzione essenziale nella comunità ecclesiale: la glorificazione di Dio. Il certosino si ritira nel deserto innanzitutto per adorare Dio, per lodarlo, per ammirarlo, per lasciarsi sedurre da Lui, per donarsi a Lui, e questo a nome di tutti gli uomini. La sua vocazione è di cantare la lode nella Chiesa di oggi, in attesa di farlo con la totalità degli eletti alla presenza di Dio nell'eternità. Ogni giorno, in tutti gli uffici liturgici e nella celebrazione dell'Eucaristia essi pregano per tutti i vivi e i morti. Per mezzo di Cristo, «che è alla destra di Dio, vivente per sempre per intercedere a favore degli uomini», essi portano davanti a Dio le attese e i problemi del mondo, insieme alle gravi intenzioni e preoccupazioni della Chiesa intera.E per finire…Il termine "mistico", compare per la prima volta come aggettivo della parola Teologia. Con l'espressione Teologia Mistica si intendeva indicare una Teologia del "silenzio" (mistico deriva dal greco miein, tacere), esprimente l’impossibilità di una conoscenza positiva, ovvero descrittiva di Dio in quanto Assoluto , pertanto non definibile e quindi trascendente ogni concetto.