mercoledì 14 novembre 2007

LA PREGHIERA

La tradizione spirituale della Chiesa considera la preghiera come un cammino di graduale maturazione nel dialogo con Dio. Come ogni altra relazione personale, anche il rapporto di amicizia col Signore ha bisogno di crescere e di approfondirsi nel tempo. Il battezzato passa perciò attraverso diverse forme di preghiera, in proporzione alla sua maturità spirituale: il primo gradino è rappresentato dalla preghiera vocale, il secondo da quella mentale, il terzo dalla preghiera del cuore, il quarto dalla contemplazione.

preghiera vocale
La preghiera più facile, ossia quella che costituisce il primo gradino del cammino spirituale è la preghiera fatta di formule. Con la definizione “orazione vocale” non si intende tanto la preghiera pronunciata ad alta voce (anche la preghiera del cuore può essere pronunciata ad alta voce), ma si allude alla preghiera accessibile a chi è ancora immaturo nel dialogo con Dio, e perciò non gli sgorga nulla da dire a Dio, oppure gli sgorgano richieste sbagliate. La Chiesa, allora, ha preparato delle preghiere standard (l’Ave Maria, l’Atto di Fede, l’Atto di Speranza, le preghiere del mattino e della sera…) in cui il battezzato può trovare ciò che va detto a Dio. La preghiera del “Padre Nostro”, insegnata da Gesù ai suoi discepoli risponde proprio a questa esigenza. In sostanza, nella fase immatura della vita cristiana non si sente il bisogno di parlare a Dio (così come non si sente il bisogno di ascoltarlo nella sua Parola), e la preghiera dei formulari è un aiuto per l’elevazione della mente a Dio.

La preghiera mentale
secondo gradino è la preghiera “mentale”. Questo tipo di preghiera è priva di formule. Anche qui la definizione non allude semplicemente al fatto che non è pronunciata con le labbra. Infatti, anche la preghiera vocale, ad esempio un’Ave Maria, può essere recitata mentalmente, pur essendo costituita da una formula prestabilita. Più precisamente, con la definizione “orazione mentale” ci si riferisce solitamente alla meditazione. La meditazione è una forma di preghiera elevata a cui non si arriva facilmente. Essa può essere definita pure “preghiera di ascolto”, perché si fonda su un rapporto profondo con la Parola di Dio. Questa forma di preghiera non consiste nel “dire” qualcosa a Dio, ma nella capacità di “ascoltare e capire” ciò che Egli sta dicendo proprio a me attraverso i testi biblici della Messa, e attraverso la lettura quotidiana della Bibbia.
Questo tipo di preghiera raggiunge la sua massima espressione nelle giornate di ritiro e negli esercizi spirituali. Beninteso, questa forma di preghiera non consiste nel capire il testo biblico, ma nella capacità di sentire quella parola utile e illuminante per le situazioni che io sto vivendo proprio adesso.

La preghiera del cuore
Terzo gradino: la preghiera del cuore. La preghiera del cuore consiste nel “dire” qualcosa a Dio. Essa rappresenta un livello ancora più alto di quello della meditazione. Quando la persona giunge a sentire il bisogno di “parlare” a Dio, di aprirgli il cuore con fiducia, di esprimergli l’affetto filiale e la lode senza formule prestabilite, ma con parole che vengono dall’intimo, come quelle che siamo soliti dire alle persone che più amiamo, allora significa che si è giunti alla preghiera del cuore e che si è ben avanti nello sviluppo della carità teologale. Questo tipo di preghiera si manifesta sia in momenti celebrativi comunitari, sia nella preghiera intima e individuale, e assume quindi sia il carattere vocale che mentale. Negli incontri di preghiera, quando la comunità si raduna per l’ascolto della Parola o per l’Adorazione, allora la preghiera del cuore si presenta come preghiera spontanea, perlopiù sotto la forma della lode. Nella preghiera individuale, la preghiera del cuore si ha nella spontanea e filiale consegna della propria vita quotidiana a Dio, sentito come Padre. La conoscenza di Dio come “mio” Padre è essenziale alla preghiera del cuore; senza questo rapporto veramente filiale con Dio non può esserci alcuna preghiera del cuore. Sarebbe inautentica se ci fosse.

La contemplazione
La forma più elevata di preghiera è la contemplazione. La sua caratteristica peculiare è quella di essere “quasi senza parole”. In termini pratici, questa forma di preghiera si attua quando la persona si concentra su un mistero della fede, preferibilmente con l’aiuto di una icona o di un crocifisso su cui fissare lo sguardo, perché le distrazioni non producano eccessivo disturbo. Per questa preghiera conviene assumere una posizione comoda, in modo che ci si possa rilassare; poi, fissando lo sguardo sul crocifisso, o su un’icona, o sull’Eucaristia solennemente esposta, ridurre i pensieri al silenzio e lasciare che il mistero di Dio occupi tutto lo spazio della nostra interiorità. L’obiettivo è quello cogliere le meraviglie di Dio, intuire la sua bellezza, e guardarlo come si guardano gli innamorati, ossia con un senso di beatitudine e di stupore. Mentre l’attenzione è concentrata sul mistero di Dio, il pensiero non deve seguire alcun ragionamento. Al massimo, conviene far risuonare dentro di sé, di tanto in tanto, e secondo il proprio stato interiore, qualche breve frase evangelica o liturgica come ad esempio: “Se vuoi puoi guarirmi”, “Figlio di Davide, abbi pietà di me”, “Tu sei il Cristo”, “vieni, Spirito Santo”, “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”, oppure semplicemente “Padre”. Ma tutto ciò senza che la mente sia afferrata dal ragionamento.

Salì sul monte a pregare (di Pd.Raniero Cantalamessa)


Luca 9, 28b-36



Luca, nel suo vangelo, chiarisce il motivo per cui Gesú quel giorno "salì su un alto monte": vi salì "per pregare". Fu la preghiera che rese il suo vestito bianco come la neve e il suo volto splendente come il sole. Partiamo da questo episodio per esaminare il posto che la preghiera occupa in tutta la vita di Cristo e cosa essa ci dice sull'identità profonda della sua persona. Qualcuno ha detto: "Gesú è un uomo ebreo che non si sente identico a Dio. Non si prega infatti Dio se si pensa di essere identico a Dio". Lasciando da parte per il momento il problema di cosa Gesú pensasse di se stesso, questa affermazione non tiene conto di una verità elementare: Gesú è anche uomo ed è come uomo che prega. Dio non potrebbe neppure avere fame e sete, o soffrire, ma Gesú ha fame e sete e soffre perché è anche uomo. Al contrario, vedremo che è proprio la preghiera di Gesú che ci permette di gettare uno sguardo nel mistero profondo della sua persona. È un fatto storicamente attestato che Gesú, nella sua preghiera, si rivolgeva a Dio chiamandolo Abbà, cioè caro padre, padre mio, e perfino papà mio. Questo modo di rivolgersi a Dio, pur non del tutto ignoto prima di lui, è talmente caratteristico di Cristo da obbligare ad ammettere un rapporto unico tra lui e il Padre celeste. Ascoltiamo una di queste preghiere di Gesú, riportata da Matteo:
"In quel tempo Gesù disse:
Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. "Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te. Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare" (Mt 11, 26-27).

Tra Padre e Figlio c'è, come si vede, una reciprocità totale, "uno stretto rapporto famigliare". Anche nella parabola dei vignaioli omicidi emerge chiaro il rapporto unico, come di figlio a padre, che Gesú ha con Dio, diverso da quello di tutti gli altri che sono chiamati "servi" (cf. Mc 12, 1-10). A questo punto sorge però un'obbiezione: perché allora Gesú non si è attribuito mai apertamente il titolo di Figlio di Dio durante la sua vita, ma ha parlato sempre di se come del "figlio dell'uomo"? Il motivo è lo stesso per cui Gesù non dice mai di essere il Messia e quando altri lo chiamano con questo nome è reticente, o addirittua proibisce di dirlo in giro. La ragione di questo modo di comportarsi è che quei titoli erano intesi dalla gente in un senso ben preciso che non corrispondeva all'idea che Gesù aveva della sua missione.
Figlio di Dio erano detti un po’ tutti: i re, i profeti, i grandi uomini; per Messia si intendeva l'inviato di Dio che avrebbe combattuto militarmente i nemici e regnato su Israele. Era la direzione in cui cercava di spingerlo il demonio con le sue tentazioni nel deserto… I suoi stessi discepoli non avevano capito questo e continuavano a sognare un destino di gloria e di potere. Gesú non intendeva essere questo tipo di Messia. "Non sono venuto, diceva, per essere servito, ma per servire". Egli non è venuto per togliere la vita a qualcuno, ma "per dare la vita in riscatto per molti". Cristo doveva prima soffrire e morire perché si capisse che tipo di Messia era.
È sintomatico che l'unica volta che Gesú si proclama lui stesso Messia è mentre si trova in catene davanti al Sommo Sacerdote, in procinto di essere condannato a morte, senza più possibilità ormai di equivoci. "Sei tu il Messia, il Figlio di Dio benedetto?", gli domanda il Sommo Sacerdote, e lui risponde: "Io lo sono!" (Mc 14, 61 s.). Tutte i titoli e le categorie dentro cui gli uomini, amici e nemici, cercano di inquadrare Gesú durante la sua vita, appaiono strette, insufficienti. Egli è un maestro, "ma non come gli altri maestri", insegna con autorità e in nome proprio; è figlio di David, ma è anche Signore di David; è più che un profeta, più che Giona, più che Salomone. La domanda che la gente si poneva: "Chi è mai costui?" esprime bene il sentimento che regnava intorno a lui come di un mistero, di qualcosa che non si riusciva a spiegare umanamente. Il tentativo di certi critici di ridurre Gesú a un normale ebreo del suo tempo, che non avrebbe detto e fatto nulla di speciale, è in contrasto totale con i dati storici più certi che possediamo su di lui e si spiega solo con il rifiuto pregiudiziale di ammettere che qualcosa di trascendente possa apparire nella storia umana. Tra l'altro, non spiega come un essere così ordinario sia diventato (a detta di quegli stessi critici) "l'uomo che ha cambiato il mondo".
Torniamo ora all'episodio della Trasfigurazione per trarne qualche insegnamento pratico. Anche la Trasfigurazione è un mistero "per noi", ci riguarda da vicino. San Paolo, nella seconda lettura dice: "Il Signore Gesù Cristo trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso". Il Tabor è una finestra aperta sul nostro futuro; ci assicura che l'opacità del nostro corpo un giorno si trasformerà anch'essa in luce; ma è anche un riflettore puntato sul nostro presente; mette in luce quello che già ora è il nostro corpo, al di sotto delle sue misere apparenze: il tempio dello Spirito Santo. Il corpo non è per la Bibbia un'appendice trascurabile dell'essere umano; ne è parte integrante. L'uomo non ha un corpo, è corpo. Il corpo è stato creato direttamente da Dio, assunto dal Verbo nell'incarnazione e santificato dallo Spirito nel battesimo. L'uomo biblico rimane incantato di fronte allo splendore del corpo umano: "Mi hai fatto come un prodigio. Sei tu che mi hai tessuto nel seno di mia madre. Sono stupende le tue opere" (Sal 139). Il corpo è destinato a condividere in eterno la stessa gloria dell'anima. "Corpo e anima, o saranno due mani giunte in eterna adorazione, o due polsi ammanettati per una cattività eterna" (Ch. Péguy).
Il cristianesimo predica la salvezza del corpo, non la salvezza dal corpo, come facevano, nell'antichità, le religioni manichee e gnostiche e come fanno ancora oggi alcune religioni orientali Che dire però a chi soffre? a chi deve assistere alla "sfigurazione" del corpo proprio, o di quello di una persona cara? Per costoro è forse il messaggio più consolante della Trasfigurazione. "Egli trasfigurerà il nostro misero corpo conformandolo al suo corpo glorioso". Saranno riscattati i corpi umiliati nella malattia e nella morte. Anche Gesù, di lì a poco, sarà "sfigurato" nella passione, ma risorgerà con un corpo glorioso, con il quale vive in eterno e al quale, la fede ci dice che andremo a ricongiungerci dopo morte.